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Famosa per aver realizzato un diario personale fatto di immagini, Nan Goldin con la sua sensibilità (rara, come racconta il curatore François Hébel) ha rivoluzionato il modo di raccontare l’esistenza. Forzando i limiti di un racconto personalissimo, ha creato una grammatica fotografica che ha lasciato tracce indelebili su altrettanti fotografi (amati) come Wolfgang Tillmans, Juergen Teller e Corinne Day. Più in generale ha legittimato l’istintiva espressione del fotografare in poesia sublimata, in scrittura visiva essenziale e struggente.
Ora Milano la commemora con una mostra ospitata alla Triennale di Milano fino al 26 novembre 2017. Curata da François Hébel, curatore e grande amico della Goldin, The Ballad of Sexual Dependency – titolo della mostra, mutuato dal lavoro più celebre della fotografa, la raccolta di centinaia di fotografie iniziata negli anni ’80 e ampliata e aggiornata, nel corso dei decenni – giunge da una recente tappa al MoMA di NY, luogo di cui la Goldin rivela una non proprio ineccepibile organizzazione (“a differenza di qui in Triennale, al MoMA l’allestimento non è stato così perfetto, ho notato addirittura delle foto capovolte e messe al contrario…”), e racconta, una volta ancora, la sua indiscussa bravura nel farsi portavoce – autentica, unica e rara – di una generazione, la sua, raccontata attraverso immagini struggenti, dal realismo crudo, tanto toccanti quanto lo possono essere i legami autentici tra le persone. Perché tutte le persone immortalate negli anni altro non sono che la sua ‘famiglia allargata’, i suoi amici, amanti, pusher, parenti trovati o imposti dalla vita. Più volte lei stessa ha rivelato che non poteva fare altro nella vita, così come non avrebbe mai potuto fotografare persone che non conoscesse, con cui non avesse dei legami.
The Ballad of Sexual Dependency ha avuto un percorso espositivo tra i più eterogenei. Inizialmente mostrato in modo informale in casa di amici, il primo esordio ufficiale è stato nel 1985 alla Biennale del Whitney di NY. Accolto in modo controverso, negli anni successivi, quello che nel tempo è diventato un autentico capolavoro della fine del secolo scorso, è stato proiettato in gallerie, musei, club, teatri alternativi, festival in Europa tra cui quello di Arles nel 1987.
Definita, all’inizio della sua carriera, acerba, inadeguata, tecnicamente inadatta, nel corso dei decenni, la Goldin è diventata la portavoce di una generazione ‘perduta’ nella New York degli anni ’70 e ’80. Prostitute, trans, tossicodipendenti, spacciatori, perdigiorno, ma anche artisti, fotografi, curatori: il suo entourage aveva come ‘gene’ comune il fatto di vivere intensamente (fotograficamente) la vita. Tutto si consumava e inghiottiva nel momento, nel tempo di uno scatto, un abbraccio, una tirata di cocaina o un ‘viaggio’ di eroina. Letti disfatti, muri scrostati, scale buie, scantinati, motel, discoteche, tuguri, divani sfondati, alcool a fiumi, botte da orbi, siringhe, macchie e buchi, sorrisi sdentati e occhi bistrati, pailette e rammendi: il mondo raccontato dalla Goldin è fatto di un sublime squallore, di una sfondata atmosfera stupefacente dove si giunge all’alterità tramite una miscela indistinta di droga e amore, sballo e carnalità, sesso e violenza.
François Hébel, Curatore della mostra —
Quando ho iniziato a lavorare, veniva considerata fotografia solo quella in bianco e nero, con cornice, con soggetti ‘classici’. Avevo già fatto una edizione di Arles nel 1986 e cercavo delle cose che fossero espressione della mia generazione. In realtà non sapevo esattamente cosa cercare. Arrivato a New York, un’amica mi ha consigliato di partecipare alla presentazione del libro ‘di una che si chiama Nan Goldin, che farà una performance e… forse ti piacerà’. Sono andato e ho assistito una delle cose più radicali che abbia mai visto. Ritengo sia stata una di quelle cosa che succedono una o due volte nella vita. Fotografi bravi ce ne sono tanti, ma delle espressioni che sono una librazione tale che aprono un campo enorme… non ne ho visto tante. Questa esperienza mi ha accompagnato in tutte le mie scelte, in particolare nel mio rapporto con tanti altri fotografi in merito a come presentare la fotografia. (…) Per me, il lavoro di Nan Goldin è stato uno shock perché aveva un’intensità molto forte. Ha compiuto una scelta molto strana per l’epoca, quella del colore, che era riservato alle pubblicità, al marketing ma non alla fotografia professionale. L’utilizzo del colore non era consigliato a chi voleva essere considerato un fotograto a tutti gli effetti. Senza contare che la Goldin ha scelto anche di mostrare le immagini attraverso delle proiezioni. La stessa fotografa ha più volte detto ‘La mia vita è uno slideshow, un audio-visivo che cambierò sempre a seconda della famiglia, degli amici, dello stesso mondo che mi circonda. Certamente faccio delle stampe e dei libri, ma per me, il senso del mio lavoro è lo slideshow’. (…) Il colore, l’utilizzo delle proiezioni a immagini fisse, ma soprattutto la scelta di temi trattati hanno reso la ricerca della Goldin estremamente radicale negli anni ’70. Lei alternava soggetti provocanti con atmosfere quotidiane e rassicuranti, esprimendo delle storie con una sensibilità fuori del comune.
Ed è soprattutto al sua sensibilità che la rende unica. Anni dopo averla incontrata, mi è capitato di rincontrarla ad Arles. Nella selezione di fotografi in cui ho potuto cogliere la sua rara sensibilità; il suo occhio, radicale ed esigente, non si coglie dunque solo nel suo lavoro, ma anche nella lettura che lei dà delle immagini prodotte da altri. (…) L’introduzione della musica nella fruizione degli slideshow – canzoni che spaziano dalla canzone d’amore al punk – ha fatto sì che il suo lavoro venga percepito in modo più intenso e profondo. Anche questa scelta, come molte altre, è stata per molti versi radicale.
Ogni scelta da lei compiuta ha sempre avuto l’obiettivo di raccontare la sua vita. E devo dire che lo ha fatto attraverso un’indescrivibile bellezza”.
Nan Goldin racconta…
E’ dal 1986 che manco da Milano. Ricordo che sono arrivata in questa città da Positano, dopo un evento portavo con me all’incirca 800 diapositive. Ricordo che mi spostavo da un posto all’altro buttando le diapositive in dei sacchetti di plastica. Ad ogni presentazione ne cambiavo la sequenza. A seconda di dove le esponevo, spendevo ore a sistemarle. Ricordo che in un’occasione ci sono stati dei problemi con il proiettore, tanto che le proiezioni sono iniziate alle 3 della mattina. L’ultimo ricordo di Milano, nel 1986, è legato agli amici, tra questi Guido Costa con cui ho lavorato sia a Milano che a Torino. Finalmente sono tornata in Triennale in questa buona occasione. (…)
La prima volta che ho incontrato François Hébel è stato un po’ di tempo fa. Ricordo che dopo quell’estate siamo diventati grandi amici. Abbiamo dato una sequenza allo slideshow e l’abbiamo proiettata nell’anfiteatro romano in cui eravamo stati invitati… Questa sequenza è stata utilizzata anche 25 anni dopo e ancora nel 2009, pochi anni fa. Ricordo che avevo invitato i Tiger Lillies; ero una grande fanatica di questo gruppo. Aevo chiesto loro di comporre la musica per la mia presentazione però hanno scritto di qualcosa di assolutamente inadeguato. Avevano scritto dei testi che toccavano tematiche molto forti come la violenza carnale sulle donne. Io sono femminista, lo sono sempre stata; credo che una donna che rispetta se stessa non può che essere femminista. Così sono nata e così rimarrò. Ho chiesto ai Tiger Lillies di comporre qualcosa di più adeguato per la presentazione e loro hanno composto una ballata. L’abbiamo utilizzata nell’anfiteatro romano davanti a 2000 persone che sono rimaste molto coinvolte. (…)
Prima di incontravi, ho dato uno sguardo all’allestimento qui in Triennale. Devo dire che è allestita molto bene, seconda solo alla proiezion all’anfiteatro romano di cui vi raccontavo prima. Tutto è funzionato molto bene. Oltre alle proiezioni, vedrete anche dei manifesti originali e dei poster delle miei prime performance. All’inizio producevamo noi questo materiale, era tutto autoprodotto. Ricordo una presentazione, nel 1979 in un nightclub a New York, in occasione del compleanno di Frank Zappa. Devo dire che le mie prime mostre e presentazioni erano fatte per e con gli amici. Il mio pubblico erano proprio loro. Devo dire che ogni volta che facevo una proiezione le sequenze erano sempre diverse, questo è successo fino all’era del digitale (non che io fossi una grande amante del digitale). Le proiezioni di diapositive in America hanno una lunga storia, una lunga tradizione; sono iniziate con le storie di famiglia. Noi bambini dovevamo subirci ore di noiosissime immagini di vacanze fatte dai nostri genitori. Il mio lavoro è iniziato nello stesso modo e con le stesse intenzioni: quello di far vedere le immagini della mia famiglia e della mia vita. (…)
Per quanto riguarda la colonna sonora delle proiezioni, nel corso degli anni ho raccolto musiche e brani sonori provenienti da persone e luoghi diversi. Anche la lunghezza della proiezione è passata dagli iniziali 20 minuti, poi a trenta, per giungere agli attuali 45. (…)
L’ultimo commento con cui vorrei lasciarvi è in merito al mondo dell’arte in generale. Quando ho iniziato a fare fotografia a colori, mi dicevano: ‘questa non è arte, sono immagini di vita reale’. Tante persone si sono sentite offese. In realtà non c’è nulla di radicale nelle immagini della vita reale; bisognava immaginare qualcosa che fosse artistico. In realtà non è mai stata sulle mie corde. Ho sempre tenuto gli occhi ben aperti. Il mondo è così strano che non c’è bisogno di immaginarsi un granché!
Vorrei anche parlare del mio ruolo di adesso. In questo momento tendo ad aiutare gli altri artisti. Da parecchi anni non faccio più fotografie, e mi dedico in altre attività. Mi piace molto il mondo cinematografico, quello delle arti visive in generale. Al momento la mia arte prediletta è la pittura; ho anche iniziato a dipingere e spero di produrre dei lavori altrettanto buoni di quelli che ho fatto con la fotografia. Vedremo cosa ci porterà il futuro. Nel tempo ho lavorato nel settore della moda, perchè questo richiede il mercato. Ha anche fatto moltissimi ritratti. Molte persone mi hanno chiesto di fotografarle, sperando che il mio lavoro riflettesse un certo tipo di sensibilità. In realtà il mio lavoro è sempre stato il riflesso di relazioni intense e intime. Dunque non ha nessun tipo di rapporto con un tipo di fotografia su commissione, l’intimità e l’intensità non sono in vendita, non si pagano.