Loredana Longo | Victory

"Il mio stimolo è ciò che scuote il mondo, ciò che lo mina dal suo interno, che ne stravolge i ritmi".
18 Maggio 2016

In occasione della personale  Victory di Loredana Longo alla galleria Francesco Pantaleone Arte Contemporanea di Palermo, curata da Valentina Bruschi, ATPdiary ha deciso di porre alcune domande all’artista.

ATP: Partiamo dal titolo. Come mai hai scelto di intitolare la tua mostra “Victory”, parola che poi si trova ossessivamente anche nelle opere?

Loredana Longo: Credo sia nata vedendo delle immagini in cui alcuni terroristi dell’Isis inneggiavano alla vittoria subito dopo avere distrutto alcuni reperti archeologici nel Museo di Mosul in Iraq. La parola “Vittoria” si è associata immediatamente a quella di “sconfitta”, di una cultura, di una civiltà. Da quel momento ho pensato a quante volte questa parola sia stata legata davvero al suo significato. Spesso l’aver superato qualcosa non significa aver ottenuto quello che desideravamo.  Le vittorie scientifiche, militari, politiche, hanno spesso portato a situazioni ancor peggiori delle precedenti. Come ha scritto la giornalista franco-marocchina, Zineb El Rhazoui, in un testo per la mostra: La vittoria dei valori con le armi è la più grande impostura delle nazioni belligeranti del mondo di oggi. Per vincere la guerra contro le tenebre del pensiero, contro il grado zero della ragione, affinché la vittoria sia quella dell’intelligenza e della libertà, non c’è bisogno di aerei da caccia, né di raid aerei, ma solo di luce, molta luce.

ATP: Spesso ti relazioni, come se non potessi fare altrimenti, alle tematiche contemporanee, indagandone azioni e atti di parola. Penso ai tappeti “Place/No Place” dove riporti frasi di potenti del mondo, alla tua “battaglia personale” in “My own war”, alla riflessione sull’urgenza dei migranti in “Tu primo a sorgere”. Cosa ti spinge ad affrontare così caldamente le tematiche socio-politiche? 

L.L.: Non ho mai realizzato un lavoro in astratto, parto sempre dalla realtà per dare una visione personale del mio pensiero. Un artista è un individuo immerso nel suo tempo, circondato da molteplici stimoli, il mio stimolo è ciò che scuote il mondo, ciò che lo mina dal suo interno, che ne stravolge i ritmi. Abbiamo vissuto decenni di apparente tranquillità in Europa, poco sensibili agli avvenimenti in altre parti del mondo, finché un giorno ci siamo svegliati, qualcuno ha bussato alle nostre frontiere. (Ciò non ci ha resi più vicini, empatici all’altro ma solo più attenti a proteggerci dall’altro.) Nei tappeti si possono leggere le frasi di uomini influenti rivolte ad accadimenti in Medio oriente, e sono bruciate sulla superfice, scavano col fuoco. Nella mia performance The Circle mi travesto da dittatore e recito un discorso folle in cui interpreto diversi tiranni, alla fine come in un circolo vizioso il predatore diventa preda, e non esiste un vincitore. Essere nata e vissuta in Sicilia mi ha abituata a convivere con situazioni particolari: una classe politica che ha lavorato contro la sua popolazione, il suo territorio. Il popolo siciliano ha raggiunto un compromesso con la sua esistenza e pagato un conto troppo alto per la sua sopravvivenza. Probabilmente è il riscatto per la bellezza di cui possiamo godere, che è data anche dalla posizione geografica, motivo per il quale questa terra è sempre stata luogo d’invasioni in passato e di flussi migratori nel presente. Nel 2012 realizzai The Block, una serie d’immagini e un video: una massa di stracci poggiati su un grosso blocco di cemento nel porto di Scoglitti (Ragusa), un cumulo di stracci in cui erano impigliati dei corpi di migranti. Allora si parlava poco di questo fenomeno migratorio, ma io ero impressionata dal numero di abiti abbandonati che trovavo sulle spiagge a Ragusa. In “Tu primo a sorgere”, performance realizzata questa estate proprio a Ragusa, alcune donne (rifugiate politiche) sono sdraiate sotto le ruote di un enorme tir, sul telone la scritta “Tu primo a sorgere nella gloriosa terra di Sicilia”, frase pronunciata da Benito Mussolini nella Torre Littoria in quella piazza. Ritroviamo il conflitto d’interessi di una politica espansionistica che non trova riscontro in una politica di apertura nei confronti dell’immigrato. A proposito della presenza della scrittura nel mio lavoro, in questa mostra ci sono 3 parole importanti che diventano il lavoro stesso: “Victory” sugli arazzi e nella serie di sculture in marmo (vandalizzate con scalpello); “Sorry” serigrafata nella carta all’interno dei separès e “Europe” in filo spinato all’ingresso della galleria. La parola ha il potere di comunicare immediatamente il pensiero, forse per questo è così presente nei miei lavori.

ATP: Credi che l’arte abbia il potere e la forza di incidere davvero sul presente e sulla realtà quotidiana?

L.L.: Credo che l’arte non possa non esistere e se esiste è perché ha un suo scopo, è l’esigenza di alcuni di reinterpretare qualcosa e di altri di goderne, non è indispensabile ma necessaria. L’arte cammina con il suo tempo e sempre un passo avanti, per questo non incide sulla realtà ma sul futuro, difatti non ne vedi gli effetti subito ma sempre dopo.

ATP: Spesso ho avuto l’impressione che le tue opere nascessero da una gestualità intensa capace di esorcizzare un’urgenza etica. Non a caso tu bruci, spari, incementi, fai esplodere, performi… Mi spiegheresti che valore ha per te l’azione che compi nel fare arte?

L.L.: Si dovrebbe partire dalla differenza di fare l’artista o essere artista. Visto che mi considero un’artista, la mia pratica è conseguente alla mia personalità: ho sempre riposto molta attenzione alla forza, rappresenta una possibilità di sopravvivenza. Volevo che delle azioni legate alla forza diventassero un modo operativo. Siamo attratti e spaventati dalle armi come dal fuoco e dalla potenza e prepotenza di alcune cose. Creare con elementi che normalmente sono giudicati mezzi di distruzione, conferma la mia teoria sull’estetica della distruzione: esiste bellezza anche nella distruzione e consiste nella possibilità di una rinascita.

ATP: Ritornando alla mostra, per la realizzazione degli arazzi esposti sei partita da delle fotografie. Di cosa si tratta?

L.L.: Gli arazzi fanno parte di una serie di lavori sul significato ambiguo della parola vittoria. Gli arazzi esposti in galleria sono legati ai recenti avvenimenti in Siria. Uno descrive la città di Aleppo, un paesaggio metropolitano di rovine, un altro parte dei templi di Palmira, ed infine uno scorcio di Melilla, in cui si vedono dei ragazzi che alzano le mani in segno di vittoria mentre scavalcano le barriere di separazione al confine tra il Marocco e la Spagna. Sono immagini che ho trovato in rete, che ho trasformato e poi trasportate sulla superfice di velluto, utilizzando le punte di saldatori elettrici, un’altra volta il fuoco. Scrivo e disegno col fuoco, perché sono immagini in cui la realtà brucia. Il curatore della mostra, Valentina Bruschi, ha scritto: L’artista non urla ma brucia.

ATP: Cosa rappresentano i paraventi e le coperte esposte? 

L.L.: Volevo che lo spazio della galleria rappresentasse metaforicamente la divisione fra me e l’altro da me partendo da elementi, formalmente appartenenti all’arredamento di una casa borghese, i separè. Camminando in galleria s’inciampa in coperte militari strappate, le stesse coperte di lana pesante che servivano per dare supporto in casi di prima accoglienza, rese inservibili però dai lunghi tagli.  Al centro della galleria ci sono quattro colonne, io ho circoscritto lo spazio fra esse chiudendolo con dei paraventi (separè) che nella parte esterna sono rivestiti di cemento. Ci si trova davanti ad un muro, e si è costretti a percorrerlo fino a trovare una piccola apertura. L’interno è luminoso e rivestito da una carta dorata riflettente, sulla superfice si scorge una finissima decorazione che non è altro che una virtuosa elaborazione della scritta Sorry ripetuta migliaia di volte, come un mantra che ci ricorda il nostro patetico tentativo di renderci empatici con l’altro, colui che sta arrivando e che trova un muro, una barriera che lo tiene lontano. Non è un lavoro di denuncia, è un lavoro di coscienza: la mia.

ATP: Conoscendoti, vedo in te un grande affetto per la Sicilia, tua terra d’origine. Cosa porti di questa nella tua arte, che regali poi al mondo?

L.L.: La Sicilia è l’inferno ed il paradiso in terra, sembra tanto bella perché è un luogo in cui riescono a convivere realtà meravigliose con luoghi estremamente degradati. Forse per questo sono così avvezza a descrivere scene di ordinaria devastazione, perché riconosco il passaggio della distruzione, la rovina, la rinascita. Catania, la mia città e stata distrutta dalla lava dell’Etna e dai terremoti nove volte, eppure è sempre rinata e porta con sé i segni e le ferite di tutto ciò. Sono figlia della mia terra.

2016/Loredana Longo/ Victory#2 Aleppo,   bruciature su velluto,   140x90 cm

2016/Loredana Longo/ Victory#2 Aleppo, bruciature su velluto, 140×90 cm

2016/ Loredana Longo/Sorry,   installazione 40 coperte militari strappate,    8 separè in ferro,   legno rivestito in resina e cemento,   carta da parati oro serigrafata,   cm 200x180 ognuno. Courtesy Francesco Pantaleone,   Palermo

2016/ Loredana Longo/Sorry, installazione 40 coperte militari strappate, 8 separè in ferro, legno rivestito in resina e cemento, carta da parati oro serigrafata, cm 200×180 ognuno. Courtesy Francesco Pantaleone, Palermo

2016/ Loredana Longo/ Victory,   marmo nero,   45 x20X 4cm. Courtesy Francesco Pantaleone,   Palermo

2016/ Loredana Longo/ Victory, marmo nero, 45 x20X 4cm. Courtesy Francesco Pantaleone, Palermo

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