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Live Works 2022: In scena la collettività per una nuova visione

Ogni anno tra le mura dell’ex centrale idroelettrica di Dro artisti, operatori e pubblico si incontrano in occasione di Live Works Summit, momento di restituzione del lavoro di ricerca e produzione dell’anno precedente, ma anche di incontro con i futuri...

Centrale Fies – Alok, Your Wound My Garden – Foto Alessandro Sala
Centrale Fies – Philippe Quesne Farm Fatale – Foto Roberta Segata

Ogni anno tra le mura dell’ex centrale idroelettrica di Dro artisti, operatori e pubblico si incontrano in occasione di Live Works Summit, momento di restituzione del lavoro di ricerca e produzione dell’anno precedente, ma anche di incontro con i futuri partecipanti dell’edizione successiva. Una tre giorni di performance a cura di Barbara Boninsegna e Simone Frangi duranti i quali partecipanti al progetto Live Works 2021 (Sergi Casero, Gabbi Cattani, Selin Davasse, Joannie Baumgärtner, Ivan Cheng, Ada M. Patterson & Clementine Edwards, Silvia Rosi) hanno presentato i progetti sviluppati durante l’anno. Insieme a loro nella programmazione quattro special guest internazionali (ALOK, Philippe Quesne, Omar Souleyman e Giulia Crispiani) e una serie di incontri con esperti internazionali. Tre giorni di approfondimenti e condivisione che dimostrano come la continua ricerca – e messa in discussione – sia parte fondamentale della pratica artistica performativa. 

Non è dunque un caso che ogni giornata sia stata aperta da un incontro pubblico, un’occasione teorica per approfondire temi di attualità con l’intento di porre domande più che dare risposte, aprirsi ad altre possibili visioni del mondo e della sua complessità. Non necessariamente un’introduzione alla programmazione quotidiana, ma una chiave di lettura degli spettacoli proposti nelle ore successive. Chi definisce ad esempio cos’è una catastrofe? Un evento catastrofico per me lo è per te nella stessa misura? Con l’incontro Fears of catastrophe in the Anthropocene: A postcolonial critique, Gaia Giuliani ci ricorda come infondo l’essere umano sia l’unica specie a poter dare un nome ad eventi da lui stessi causati. Ed ecco allora la necessità di cambiare punto di vista, di mettersi nei panni dell’Altro, di immaginare nuove dinamiche relazionali e sociali che per la Giuliani non possono che passare per il pensiero e la pratica femminista attraverso i concetti di cura, self-care (inteso come mantenimento di sé, self-preservation) e earth care. Giulia Damiani propone ad esempio il recupero dell’approccio de Le nemesiache, gruppo femminista fondato da Lina Mangiacapre e attivo a Napoli tra gli anni Settanta e Ottanta. Negli spazi della Galleria trasformatori, al centro del corpo della centrale, la Damiani attiva la documentazione in esposizione nell’ambito della mostra collettiva KAS di questa esperienza collettiva dando forma ad un racconto a tratti storico a tratti spirituale facendo del corpo il proprio centro. Cerca, tramuta, traduci, proprio come il metodo di autocoscienza della psicofavola sviluppato dal gruppo che ha sperimentato con il corpo, il mito e il rapporto con elemento del loro paesaggio per ritrovare un senso di appartenenza, di spazio e ruolo nella realtà.

Centrale Fies -Ivan Cheng – Wedding Day Standard Stare Foto Alessandro Sala
Centrale Fies – Selin Davasse – Multiplicity of Asia Minor – Foto Alessandro Sala

Guarda al passato recente anche Sergi Casero che con El Pacto del Ovido indaga il silenzio storico che da cinquant’anni pervade la Spagna. Tra gli spettacoli più maturi presentati, El Pacto del Ovido combina esperienze personali, racconti storici e documenti raccolti durante la ricerca che Casero ha condotto intorno alla vicenda de “Il Patto dell’oblio” una legge spagnola di amnistia approvata dopo la morta del dittatore Francisco Franco nel 1975 che impedisce l’indagine sui crimini commessi durante i quarant’anni di governo. Nel monologo, perfettamente condotto e architettato rimanendo seduto su una sedia girevole da ufficio, Casero cerca di ricostruire una storiografia nazionale incompleta tramite il racconto della nonna testimone della guerra civile. Si tratta tuttavia di una narrazione frammentaria, frutto di un’autocensura ormai interiorizzata a livello transgenerazionale. Fino a dove può spingersi il silenzio prima di diventare oblio?
Philipe Quesne guarda alla catastrofe della crisi climatica con uno spettacolo ironico e surreale portando sul palco un gruppo di spaventapasseri attivisti rimasti ormai senza lavoro a causa dell’estinzione degli animali. Farm fatale, nella sua unica data italiana, è il racconto di una realtà prossima nella quale i cambiamenti climatici hanno portato alla scomparsa di uccelli, api e insetti. Seppure mossi da “animo nobile” gli spaventapasseri sembrano tuttavia alla fine soccombere alla potenza del capitalismo e delle sue dinamiche (impersonificate qui da un vicino di casa proprietario di un’enorme fattoria) rifugiandosi in tentativi di sopravvivenza molto simili all’approccio dei preppers alla catastrofe.
E se la chiave di lettura – e sopravvivenza – fosse la non conoscenza? È ciò che immagina Patricia MacCormack, filosofa, scrittrice e curatrice, per la quale la comprensione deve necessariamente passare tramite un processo di incontro con il corpo e tra i corpi. La morte nel pensiero della MacCormack diventa un approccio, un modo di vedere da un altro punto di vista la realtà, che fa dell’arte una forma di attivismo. Il diventare, la creazione contro la riproduzione e l’immaginazione sono gli strumenti per vivere non con la terra, ma per la terra. 
All’elaborazione del lutto è dedicato A Moth Upon a Star di Clementine Edwards e Ada M. Patterson, un momento di vera dolcezza per affrontare il fallimento delle strategie di sopravvivenza di due specie animali accumunate dallo stesso destino: la falena bogong e le stelle marine. Un momento di commemorazione collettiva costruita combinando conversazioni, immagini, danze e musica. Si basa sulla combinazione di linguaggi e tematiche anche la performance di Joanni Baumgärten che con Fuck Moon, Bless Clouds celebra la notte ed elogia il buio come tempo e luogo del non determinato tramite la figura dei link-boys, portatori di torcia all’inizio dell’era moderna. Creature delle tenebre appartenenti ad una società parallela diretta ad un’economia dell’ombra, al di là dell’eteronormatività. 

Centrale Fies – Giulia Damiani e Le Nemesiache, Cerca, tramuta, traduci. Pronuncia corpo e roccia. Le Nemesiache a Napoli – Foto Roberta Segata
Centrale Fies – Omar Souleyman – Foto Roberta Segata
Centrale Fies – Simon Asencio – Foto Roberta Segata

L’esperienza personale, l’incertezza e la sensibilità del singolo si fanno collettive nella lettura dei tarocchi di Valentina Desideri e Denise Ferreira Da Silva. The Sensing Salon è una pratica di studio che espande l’immagine dell’arte oltre gli oggetti e gli eventi e include la pratica della cura come elemento centrale della ricerca artistica. Ed è proprio da un gesto di cura che sembra nasce la lettera di Giulia Crispiani: un testo personale e carico di emotività che si fa in qualche modo neutro, condivisibile e traducibile. Una lettera d’amore universale.
Sull’amore e le relazioni riflette Ivan Cheng con Wedding Day (Standard Stare) proseguo di un lavoro iniziato nel 2018 per indagare le infrastrutture, il desiderio e la distanza. Ispirandosi ai destination weddings (quei matrimoni in cui gli sposi scelgono di organizzare le nozze in un Paese diverso dal proprio), Cheng porta sul palco dello spazio unito delle due turbine uno spettacolo stratificato in cui parole, relazioni, danza e musica si combinano, la recitazione e l’improvvisazione si mescolano tramite il coinvolgimento di due persone del pubblico. Una costruzione a più livelli che l’artista mette in scena anche tramite il coinvolgimento dei musicisti Gailé Griciūté, Jiulia Reidy, Marcus Whale che hanno reintepretato alcune canzoni esistenti, ma anche l’integrazione di una scultura di Mire Lee e i costumi di Good & Bad.
Al tema del trauma, dell’appartenenza e della condizione umana è dedicato il lavoro di ALOK in cui la poesia assume la forma della stand up comedy. Your Wound / My Garden è una festa, un momento di condivisione per esplorare la distinzione tra essere vivi e limitarsi ad esistere. Ancora una volta l’invito è quello di osservare e cambiare punto di vista, tentare nuove narrazioni proprio come la comunità multispecie MAM immaginata e proposta da Selin Davasse nel suo Multiplicity of Asia Minor. Mescolando narrazioni e mitologie in una logica del post-umano, l’artista conduce due spettatori alla volta in una rilettura della narrazione cis ed eteronormata. All’interno di una cantina trasformata in utero, la Davasse assume ogni il ruolo di MAMMY sostituendo il “gesto del padre fondatore” con il “surrogato della madre” che accudisce senza autorità. Ad accompagnarla in questa riscrittura sono animali conosciuti per la loro adattabilità: il cane che interpreta qui il ruolo del lupo privato della narrazione di mascolinità della fondazione, il piccione e le formiche per una società e una narrazione basate sulla collaborazione.
La mitologia, così come la società, diventano frutto di una coltivazione collettiva, senza autorità e senza eroi.

Centrale Fies – Gabbi Cattani, ERSATZ – a mystery play in nineteen tableaux – Foto Roberta Segata
Centrale Fies – Sergi Casero, El Pacto del Olvido – Foto Roberta Segata
Centrale Fies – Clementine Edwards & Ada M. Patterson, A Moth Upon a Star – Foto Roberta Segata
Centrale Fies- Joannie Baumgärtner, Fuck Moon, Bless Clouds – Foto Roberta Segata
Centrale Fies – Vanja Smiljanić – Foto Roberta Segata