La ‘zuppa’ di Damien Hirst 

“Tutti noi abbiamo bisogno di una ragione che ci butti giù dal letto alla mattina. E questa è stata la mia ragione. Trovare un tesoro, crederci con tutto il cuore, spendendo così tanto tempo in questa vicenda da renderla vera”.
13 Aprile 2017

Lo danno per spacciato. O meglio, la sua genialità, il suo estro provocatorio, la sua sagacia sembrano essersi inabissati nei più profondi dei mari. Un po’ come Apistos (in greco Incredibile), il vascello che l’artista vuol farci credere affondato con un’inestimabile fortuna. Già è diventata un tormentone l’altrettanto l’inestimabile mostra di Damien Hirst divisa tra Punta della Dogana e Palazzo Grassi, progetto che ha avuto una gestazione di circa dieci anni e che ha coinvolto innumerevoli scienziati, archeologi, museologi ecc.
Superlativa, eccessiva, smisurata e ridondante fino alla noia, Treasures from the Wreck of the Unbelievable – a cura di Elena Geuna – si impone al nostro immaginario come insuperabile dispositivo concettuale che forse non ci lascia molto scampo: nel suo labirinto di sovrabbondanza, ci perdiamo nel cercare una formula che renda questa mostra intellegibile. I più si fermano nei dettagli: eccedenza di spiegazioni (Hirst ha esagerato nel costruire una realtà parallela a cui devo credere per forza tanto è costruito bene l’artificio), eccedenza di produzione (troppo oro, pietre preziose, bronzo, marmo; tutto è troppo grande, largo e lungo…); eccedenza di confronti: dai grandi artisti contemporanei statunitensi alla statuaria antica. Dal Telegraph (che lo disintegra), alle riviste femminili che lo osannano come il ritorno del ‘provocatore’… anche se di provocatorio resta ben poco. In ogni caso, era tutto previsto e orchestrato. “Nulla lo ferma: né la difficoltà, né i codici e i canoni dell’arte comunemente ammessi, né le controversie e i giudizi troppo sbrigativi”: sottolinea Pinault nel testo di presentazione alla stampa. L’errore più grande, infatti, è cadere in quei “giudizi troppo sbrigativi” in cui, inevitabilmente, rischiamo di cadere se interpretiamo troppo in fretta una messa inscena di così ampia portata.

Fin dal primo momento, varcato l’ingresso di Punta della Dogana, ci viene chiesto di credere nel principio – citato dal direttore di Palazzo Grassi Martin Bethenod – della “volontaria sospensione dell’incredulità” formulato da Coleridge nel 1817, ossia ci viene chiesto di confidare nella ragione che ha messo in moto un tale colosso espositivo. Damien Hirst ci sfida: come puoi non credere a tutto ciò, ad un tale processo creativo che ha richiesto anni, studi, maestranza, ragionamenti, e – direi proprio non ultimo – un investimento di così tanto denaro? Dobbiamo credere per forza di cose a una tale “follia e delirante” ricostruzione di un immaginario?
È inevitabile pensare ad una saga cinematografica come quella di Jurassic Park, iniziata nel 1993 dal regista Steven Spielberg, basata sull’omonimo romanzo scritto da Michael Crichton. Quest’ultimo, per rendere la sua storia verosimile, ha preso ispirazione da veri studi compiuti da paleontologi e scienziati. Hirst, per molti versi, ha fatto la stessa cosa per ottenere, dai tanti visitatori che vedranno la sua mostra, la ‘sospensione dell’incredulità’.

Damien Hirst, Skull of a Cyclops, Skull of a Cyclops Examined by a Diver (photography Christoph Gerigk). Photographed by Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

Damien Hirst, Skull of a Cyclops, Skull of a Cyclops Examined by a Diver (photography Christoph Gerigk). Photographed by Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

E se proprio non vogliamo lasciarci rapire dal leggendario ritrovamento del vascello, dobbiamo avere fede sulle ragioni che hanno motivato lo stesso artista nel fare un tale ‘capolavoro’ immaginativo: “Tutti noi abbiamo bisogno di una ragione che ci butti giù dal letto alla mattina. E questa è stata la mia ragione. Trovare un tesoro, crederci con tutto il cuore, spendendo così tanto tempo in questa vicenda da renderla vera” (intervista di Alessandra Mammì su D Donna della Repubblica 09/04/2017, p.41)
Ecco l’atto di fede che ci viene chiesto: confidare nelle ragioni dell’artista, nel suo folle obiettivo di investire un’enormità di tempo, soldi, energia, ingegno da rasentare il delirio. Perché questa è la sensazione che si ha dopo aver attraversato le sale delle due sedi veneziane.

Dopo la visione di mostri marini, cimeli dorati, animali fantastici, piccolissime sculture tempestate di rubini e zaffiri, statuette votive, ruderi, monili egiziani, romani, aztechi, etruschi… possiamo inventare a nostra volta una storia, continuando a fomentare una leggenda che oramai è diventata parte del nostro patrimonio culturale. E forse questo è un altro degli obiettivi di Hirst: rendere la nostra esperienza immersiva nell’esposizione veneziana parte di una vicenda molto più vasta, più memorabile.
A chi ci chiede: ti è piaciuta la mostra? Abbiamo l’obbligo di eludere la risposta per spiegare che non è questo il punto, siamo andati oltre il concetto di mostra, esposizione, arte e compagnia bella. Se Hirst ci aveva spinto un po’ più “a fondo” accettando “For the Love of God”, il teschio umano ricoperto di platino e 8.601 diamanti – per inciso, l’opera più costosa di sempre –, le provocazioni sono finite, ora c’è solo una fase di consolidamento, di pace dei sensi.

L’estremo, il nostro pupillo, lo ha già toccato, ora c’è solo da ‘mettere i remi in barca’ e lasciarci portare nel vasto mare delle sua sterminata produzione, sia essa un maniacale rifacimento della storia delle civiltà di tutti i continenti, sia essa la grande metafora dell’artista stesso. Perché è inevitabile paragonare lo stesso Hirst al protagonista della leggenda – riesumata o inventata – di Cif Amotan II: uno schiavo liberato dalle catene che, una volta diventato ricchissimo, è rimasto prigioniero dell’assillo di possedere ‘tutto’. Dall’alto della sua ricchezza ha accumulato ogni ben di dio, ogni manufatto prezioso proveniente da ogni angolo della terra. Da qui la necessità di costruire un’imbarcazione che contenesse tutti i suoi beni per trasportarli in un luogo appositamente costruito. Ma sul più bello, la nave affonda… prende avvio così la leggenda del ritrovamento, nel 2008, del relitto nell’Oceano Indiano. In sé, questa favoletta anche abbastanza banale non dice molto. La vera rivelazione, ripeto, è l’associazione inevitabile tra Amotan e Hirst: da poveri a ricchi, la smania del possesso, l’ossessione per la collezione…

Damien Hirst, Hydra and Kali Discovered by Four Divers Image: Photographed by Christoph Gerigk © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

Damien Hirst, Hydra and Kali Discovered by Four Divers Image: Photographed by Christoph Gerigk © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

Avendo scelto di non credere, né alla favole, né tanto meno all’opulenza, ci addentriamo nella collezione dello schiavo-artista per notare qualche inevitabile aspetto. Perché è a questo che induce la sfilza di copie sotto o sovra dimensionate, scolpite, stampate o fotografate: cercare un indizio che alluda che ci sia un ‘disegno’ più ampio sotto; ci deve essere un codice di accesso che ci chiarisca perché una scimmietta è stata riprodotta tre volte in oro, in giada e in bronzo; perché Mickey Mouse se ne va a zonzo nei secoli accanto a statuette votive egiziane; perché un enorme calendario mesoamericano azteco ci accoglie all’ingresso come a voler simboleggiare che sì, siamo nel 2017, ma stiamo per varcare una soglia in cui passato, presente e futuro sono fusi in un’unica grande ‘zuppa’ (cit. dall’intervista su D della Repubblica). Così definisce Hirst la smania di avere ‘tutto’ da ogni tempo: perché è questo che fa il collezionista Amotan-Hirst, possiede opere d’arte o manufatti di epoche, culture e religioni di ogni tempo.
Stanza dopo stanza, non notiamo più le differenze, le superfici tempestate di coralli e incrostazioni marine – frutto dello stare secoli in fondo agli abissi – si ripetono e rispecchiano su draghi, sfingi, topolini, donne sexy, manichini, teschi, serpenti, conchiglie, nettuni, mostri a più teste, cani, teste di medusa, gatti, sculture funerarie, scudi, urne, dischi solari… tutti riprodotti più volte, in diverse dimensioni in differenti materiali…

Entrando e uscendo nell’atrio di Palazzo Grassi, camminiamo tra le gambe di un colosso decapitato di 18 metri. Ci sovrasta e ci accompagna per tutta la mostra; le sue dita dalle unghie lunghissime, la sua muscolatura, la sua imponenza fa capolino tra archi e colonne, piano dopo piano. La sua testa è ruzzolata poco lontano, deforme e mostruosa. Usciamo stupefatti o annoiati. Sicuramente confusi. 

Avete tempo per visitarla fino al 3 dicembre 2017, giorni in cui la mostra chiude i battenti.

Damien Hirst, Hydra and Kali (two versions), Hydra and Kali Beneath the Waves (photography Christoph Gerigk). Photographed by Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

Damien Hirst, Hydra and Kali (two versions), Hydra and Kali Beneath the Waves (photography Christoph Gerigk). Photographed by Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

Damien Hirst - Treasures from the Wreck of the Unbelievable Palazzo Grassi – Punta della Dogana, Venezia 2017 © ATPdiary - Installation view

Damien Hirst – Treasures from the Wreck of the Unbelievable Palazzo Grassi – Punta della Dogana, Venezia 2017 © ATPdiary – Installation view

Damien Hirst, Demon with Bowl (Exhibition Enlargement). Photographed by Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

Damien Hirst, Demon with Bowl (Exhibition Enlargement). Photographed by Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

 

Damien Hirst - Treasures from the Wreck of the Unbelievable Palazzo Grassi – Punta della Dogana, Venezia 2017 © ATPdiary - Installation view

Damien Hirst – Treasures from the Wreck of the Unbelievable Palazzo Grassi – Punta della Dogana, Venezia 2017 © ATPdiary – Installation view

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