La Natura e la Preda – Conversazione con Irene Coppola | PAV, Torino

Il suo sguardo punta verso il periferico, verso le terre lontane, come a ricercare quel punto d’inizio che unisca cultura e natura.
26 Maggio 2022
Irene Coppola – Documentazione fotografica del progetto di residenza La Wayaka Current-Tropic 08°N realizzato presso la comunità indigena Guna Yala di Panama, con l’artista Irene Coppola e con il sostegno dell’Italian Council 2019. ©Vito Priolo.
Irene Coppola – Documentazione fotografica del progetto di residenza La Wayaka Current-Tropic 08°N, realizzato presso la comunità indigena Guna Yala di Panama, in collaborazione con l’architetto Vito Priolo e con il sostegno dell’Italian Council 2019. ©Irene Coppola

Intervista di Emma Drocco —

Il PAV, Parco Arte Vivente di Torino ospita la mostra collettiva ‘La natura e la preda’ a cura di Marco Scotini. Si tratta un tema complesso quanto delicato, quello della memoria coloniale, declinato in interessanti lavori da un gruppo di giovani artisti: Irene Coppola con Vito Priolo, Edoardo Manzoni, Daniele Marzorati e Alessandra Messali. 
Ma come si diventa preda? Non è una condizione innata, ma l’effetto di un processo di gerarchizzazione, è il meccanismo alla base del colonialismo, un passato che spesso si tende rimuovere perché ci vede come oppressori, ma che in realtà è importante teorizzare.
È quello che hanno fatto questi artisti, o meglio archeologi di storia sociale, affrontando il tema della rappresentazione dell’esotico.
Preda, l’etimologia è quella del verbo prendere, ci riporta alla mente un’azione violenta ma allo stesso tempo legittimata perché attribuita alla natura. Confrontandoci con la memoria coloniale, italiana e non solo, ci ritroviamo alle prese con un passato che è sempre, tragicamente, attuale, le forme di oppressione che ci auguravamo concluse con la fine dello schiavismo, non sono in realtà così diverse dalle dinamiche legate alle politiche economiche neoliberiste attuali.
Ed ecco che diventa fondamentale costruire una teoria della preda per comprendere la memoria coloniale fino in fondo, ed è ciò che hanno fatto gli artisti in mostra, con un lavoro molto simile a quello di archeologi.
Qual è l’obiettivo? Quello di indagare i modelli di rappresentazione dell’esotico, partendo dall’estetizzazione della violenza che si ritrova nelle immagini prodotte in Africa durante il periodo coloniale, dove la ‘bestia’ domata e uccisa era segno di un’impresa eroica, fino a domandarsi ‘cosa significa essere rappresentati?’ attraverso le parole dello scrittore Emilio Salgari, autore di numerose storie d’avventura ambientate in paesi “esotici” nonostante non avesse mai viaggiato fuori dall’Italia.  

Abbiamo colto questa occasione per approfondire il lavoro dell’artista, vincitrice dell’Italian Council 2019 e di “IT Out OFF the Ordinary – Dakar / Matérialité(s)” progetto internazionale del Ministero della Cultura e del Ministero degli Affari Esteri a sostegno dei giovani artisti italiani nelle Biennali Off ed evento collaterale della 14. Edizione della “Biennale de l’Art africain contemporain” (Dak’Art 2022).
Irene Coppola è una delle artiste in mostra, già dai suoi primi lavori si interessa alla “narrazione della quotidianità, trascurata dalla grande Storia, ma risonante di memorie personali e collettive”. Il suo sguardo punta verso il periferico, verso le terre lontane, come a ricercare quel punto d’inizio che unisca cultura e natura. La collaborazione con l’architetto Vito Priolo nella comunità indigena di Guna Yala (Panama) ha come obiettivo quello di costruire un codice di memoria, facendo dell’archivio il loro metodo di conoscenza, una mappa per migrazioni e spostamenti che racconta la storia del territorio.

Irene Coppolo – Symbiotic Acts, 2021, assemblaggi scultorei, materiali organici ed elastici. ©Irene Coppola.

Segue l’intervista —

Emma Drocco: Il tuo percorso di artista inizia con una formazione accademica, ma cosa rimane oggi nei tuoi lavori di quei primi anni di studi?
Irene Coppola: Il periodo accademico è stato un momento di ascolto molto importante per coltivare la mia pratica artistica, attraverso cui ho anche imparato a disimparare. 

E.D. : Una pratica che si nutre d’interessi interdisciplinari la tua, qual è il linguaggio visivo che più trovi affine al tuo lavoro?
Irene Coppola: Prediligo l’installazione perché condensa diverse prospettive e punti di vista, permette di abitare lo spazio in modo inaspettato e di posizionarsi come corpi attivi. La mia è una sensibilità principalmente tattile, lavoro con la materia e le sue trasformazioni.

E.D. : L’autunno del 2019 è stato per te molto importante, vincitrice della residenza artistica La Wayaka Current-Tropic 08 N in America Latina, con l’architetto Vito Priolo hai svolto una intensa ricerca anche di archiviazione nel villaggio di Guna Yala. Il libro Habitat 08 N, restituzione di questo lavoro viene pubblicato nel 2021, tra i due eventi una pandemia, quanto la situazione globale ha modificato il vostro lavoro?
Irene Coppola: La pandemia è arrivata pochi mesi dopo il nostro rientro in Italia e certamente ha influito sul ripensare l’esperienza e il lavoro appena svolto con la comunità indigena Guna, dove la vita segue ritmi in stretta connessione con la natura. Abbiamo lavorato per più di un anno sulla pubblicazione di Habitat 08°N edita da Viaindustriae cercando di praticare un vero e proprio esercizio di memoria che abbiamo arricchito con ulteriori materiali testuali e interventi sull’archivio materiale raccolto. E’ stato inoltre importante per noi invitare Marcela Caldas, Mariette Schiltz ed Elvira Vannini, tre voci attive nel campo dell’arte contemporanea, per ampliare alcuni contenuti della ricerca che riguardano il margine, le lotte fight-specifics e il concetto di contro-display in una prospettiva ecofemminista.

E.D. : Raccontare la storia del territorio di una piccola comunità indigena, una dimensione locale che registra questioni e urgenze che interessano tutti noi, quali sono state le più evidenti?
Irene Coppola: Molte sono le urgenze che investono i territori indigeni panamensi e di cui l’occidente coloniale è responsabile. Innazitutto, con l’introduzione dei confini, gli Stati-Nazione hanno separato intere comunità provocando delle vere e proprie ghettizzazioni che in alcuni casi sono sfociate in ribellioni e guerre per l’indipendenza. Basti pensare a cosa abbia significato per il mondo intero la costruzione del Canale di Panama che ha letteralmente diviso un continente, accelerando il tempo e accorciando lo spazio del capitalismo globale che ha investito i territori autoctoni. 
Tra le altre, c’è poi la questione ecologica che riguarda il problema dello smaltimento dei rifiuti industriali che fino a qualche tempo fa non erano parte dalla cultura materiale dei popoli indigeni, e il problema dell’innalzamento delle maree che mette a rischio i villaggi insediati sull’arcipelago delle San Blas.

E.D. : Quali sono i progetti che hai in programma?
Irene Coppola: Attualmente sono in residenza presso l’Istituto Italiano di Cultura di Dakar per “IT Out OFF the Ordinary – Dakar / Matérialité(s)” progetto internazionale del Ministero della Cultura e del Ministero degli Affari Esteri a sostegno dei giovani artisti italiani nelle Biennali Off ed evento collaterale della 14. Edizione della “Biennale de l’Art africain contemporain” (Dak’Art 2022) curata da El Hadji Malick Ndiaye. I lavori realizzati in stretto dialogo con il territorio senegalese saranno in mostra dal 24 maggio al 21 giugno.
A fine giugno inaugurerò la mia personale presso la Galleria Francesco Pantaleone di Palermo.

La Natura e la Preda, exhibition view Irene Coppola e Vito Priolo – Courtesy PAV- Parco Arte Vivente, Torino
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