Intervista con Rita Selvaggio – Ultimi giorni di ICASTICA

La curatrice racconta come è nata e si è sviluppata la mostra “Colmare il bocciolo/combattere il verme/regolare il calore/eludere il vento/sfuggire all’ape”, con le opere provenienti dell' AGI Verona Collection di Giorgio e Anna Fasol.
26 Settembre 2015

Chiude i battenti domani, 27 settembre  ICASTICA: la kermesse inaugurata il 27 giugno nella città di Arezzo. Al grande progetto sono stati invitati oltre 100 artisti in 5 mostre allestite in circa 40 spazi, dentro e fuori la città toscana. I mesi scorsi abbiamo pubblicato degli approfondimenti ai vari progetti, in particolare “Adventures in Bronze, Clay & Stone”,  a cura di Adam Carr e “TAVERNA – siamo aperti” a cura di Ilaria Gianni.

Come ultimo approfondimenti, lo dedichiamo a “Colmare il bocciolo/combattere il verme/regolare il calore/eludere il vento/sfuggire all’ape”,  a cura di Rita Selvaggio. La mostra parte da un nucleo di 50 opere,  prestiti della   AGI Verona Collection di Giorgio e Anna Fasol, che la curatrice ha scelto e allestito nelle suggestive sale dalla Casa Museo Ivan Bruschi.

Segue la conversazione con Rita Selvaggio.

ATP: La mostra che hai presentato in occasione di ICASTICA 2015 è stata elaborata attingendo opere e pensieri dalla Collezione AGI di Verona. Come hai vissuto questa esperienza di lavorare  ‘immersa’ in una collezione?

Rita Selvaggio: Vorrei sottolineare che in questo caso non si è trattato di immergersi in una sola collezione, bensì in due, anzi a dire il vero in tante e molteplici. Un nucleo rappresentativo della collezione AGI – con le sue pratiche e i suoi discorsi sul contemporaneo- si è infatti mimetizzato nelle stanze della Casa Museo Ivan Bruschi attivando una conversazione inedita, unica e irripetibile con le infinite e disparate collezioni che queste gelosamente custodiscono. Ne è così risultato un continuo corto circuito non soltanto tra realtà e immaginazione, ma anche e soprattutto, tra rappresentazione e ri-presentazione. Quella di AGI, è una collezione d’arte contemporanea da sempre attenta al sostegno e alla promozione dell’arte più giovane e in cui, spesso, la data di acquisizione delle opere coincide con la data di produzione delle stesse. In questa occasione, le scelte sul contemporaneo della collezione, con tutto il loro bagaglio di sperimentazione, con i loro singoli universi di senso e i loro multiformi strumenti espressivi, si sono connesse e intrecciate ad altre temporalità aprendo un inedito dialogo. La mostra nasce dall’incontro tra una smisurata passione per l’antiquariato e gli oggetti d’arte ed il vigile ed inesauribile percorso di ricerca di Giorgio Fasol, viaggiatore instancabile, sempre attento e vigile, tenace e perseverante, curioso e adrenalinico. Questa mostra nasce innanzitutto da un patto di reciprocità e da leggi dell’ospitalità ben precise e trasparenti.

Ivan Bruschi, a detta di molti, era infatti uomo cortese e molto ospitale, con un fiuto esagerato per gli affari, curioso, vitale, morso dal demone dell’accumulo e dall’impulso del possesso. Per Giorgio Fasol il collezionismo è frutto di altrettanta passione, -“la passione è la chiave di tutto, una molla che ti scatta dentro e ti porta sempre più lontano”- ha più volte dichiarato. –“Passione e conoscenza sono alla base di tutto. Mi piace rischiare, scommettere sui giovani artisti, lasciarmi coinvolgere dal colpo di fulmine oltre ogni ragionevole dubbio”-, ama ripetere con ferma convinzione. Ricordo a proposito che, a partire dal 1985, Fasol si è concentrato quasi esclusivamente sull’acquisizione di giovani artisti alla loro prima mostra. Una volta affermati, continua a seguirne l’attività con stima ed interesse ma non ne colleziona più le opere. Si è trattato allora di gettare uno sguardo dentro il rapporto che il collezionista ha con la sua collezione, un pensare le opere di questa come scena e al tempo stesso teatro del loro stesso destino. Uno sguardo immerso nell’idea di collezionismo stesso più che in una collezione.

ATP: Potresti dirci qualcosa a proposito di Ivan Bruschi?

RS: Bruschi era nato nel 1920 da una famiglia per cui la passione per l’antiquariato e gli oggetti d’arte era stata davvero molto forte , sia il padre Pietro che il fratello maggiore erano infatti mercanti di mobili antichi. Durante gli studi aveva conosciuto Roberto Longhi e, arricchendosi di competenze artistiche sempre più specifiche, decise di dedicare la propria vita alla tutela, alla valorizzazione e al collezionismo di oggetti d’arte ai quali si avvicinava senza alcun pregiudizio di valore, ma esclusivamente animato da innata curiosità intellettuale e da raffinato gusto estetico. L’edificio che attualmente accoglie il museo era la sua casa: il piano terra era usato come magazzino, il primo piano era destinato ad accogliere amici e clienti, -vide tra i suoi ospiti, ad esempio, anche Mitterand, la Regina Guglielmina d’Olanda, i reali d’Inghilterra – mentre il secondo piano era il suo appartamento privato. Quando nel dicembre del 1996, Ivan Bruschi chiuse gli occhi sulle vicende del mondo nel piano alto del Palazzo del Capitano del Popolo, tutto l’edificio era ricolmo di oggetti, opere, curiosità, accumulate e disposte senza un vero ordine nella sequela di stanze.

ATP: Con quale criterio hai scelto le opere? C’è un tematica che hai seguito più di altre? 

RS: In verità nella selezione delle opere dalla Collezione AGI ho tenuto costantemente presente la natura e la storia del luogo che le avrebbe “ospitate”, i contesti e gli spazi che le avrebbero accolte. Esse si sono semplicemente insinuate, con intoccabile rispetto e a passo discreto e felpato, tra gli averi di Casa Bruschi. Il museo ha sede nel Palazzo del Capitano del Popolo, che deve probabilmente il suo nome dall’essere stato la sede della Parte Guelfa di Arezzo e forse del Capitano di Giustizia. Le sue origini risalgono al secolo XIII, quando venne costruito su un edificio ancora più antico. L’entrata conferma l’impressione di severità tipicamente toscana della facciata che nella penombra dell’ampio ingresso diviene armoniosa e austera nobiltà. Le alte pareti hanno accolto un’opera del 1987 di Joseph Kosuth che, alloggiata tra un prezioso lapidario, ha il ruolo di incipit della mostra. I shall offer it to you as a ready made product” recita profeticamente il neon installato non a caso come primo lavoro. Quasi una sorta di contrappunto e, al contempo, un invito ad attraversare la mostra, il monitor per Volver (2008) di Giorgio Andreotta Calò, si affaccia da una portantina del XVIII sec. in legno rivestito di pelle e con profilature e decorazioni oro. Il centro attorno cui gravita la ricerca di Andreotta Calò è infatti proprio la dimensione dell’attraversamento intesa come percorso di avvicinamento all’opera, i cui tempi non si sviluppano mai in una linea retta. Benché dispongano di una direzione e di un ordine di successione, procedono piuttosto per salti, interruzioni e latenze. Prima della diffusione delle carrozze, la portantina era il mezzo di trasporto più comune e, a sottolineare l’inizio di un percorso trasversale tra le sale del museo, ho collocato in questa sorta di “sedia volante” il video in cui la barca dell’artista, mezzo che gli ha permesso di attraversare e navigare luoghi estranei, invece di “andare per mare” letteralmente “vola”.

Jessica Stockholder,  Senza Titolo,   1994,   olio,   silicone,   cemento,   filato,   foto,   vetro,   45,  5 x 50,  5 x 9 cm; Credits Laura Veneri and Francesca Neri,   Courtesy Coll. AGI,   Verona

Jessica Stockholder, Senza Titolo, 1994, olio, silicone, cemento, filato, foto, vetro, 45, 5 x 50, 5 x 9 cm; Credits Laura Veneri and Francesca Neri, Courtesy Coll. AGI, Verona

ATP: Dopo queste premesse iniziali, come si è proceduto? Hai continuato a creare delle relazioni tra le opere d’arte contemporanea della collezione AGI e le opere permanenti nella Casa Museo Ivan Bruschi?

RS: Questo discorso si è ampliato ed è stato amplificato per tutto il percorso della mostra. Il gioco volumetrico del corridoio, che segue al primo atrio di accesso, conduce ad un chiostro interno in stile quattrocentesco. E’ ravvivato al centro da un antico pozzo e da una loggia con colonne di pietra serena dai pregevoli capitelli a foglie d’acanto. Questo spazio del museo è denominato il “Lapidario”e, come dice il nome, comprende materiale lapideo di età romana (epigrafi, elementi architettonici, frammenti di sarcofagi), manufatti medievali e post-medievali, calchi di gesso di sculture antiche, tra cui quello del Torso del Belvedere. Sono reperti provenienti dalla collezione Vitali-Danieli di Fermo acquistata da Bruschi nel 1974. L’allestimento di questi oggetti nell’ingresso della Casa Museo segue il gusto e l’uso, legato al mondo dei grandi collezionisti (si veda ad esempio il Sir John Soane’s Museum di Londra), che prevedeva l’utilizzo dei marmi antichi come nobile ornamento di facciate, cortili ed aree di ingresso di ville e palazzi. Qui tra una vasca in travertino del XVI secolo e un sarcofago Falisco (VII sec a.C.) di particolare rarità, manufatti che rimandano entrambi ad un movimento “discendente” , è stato installato Balloons:One Every Five Days (2010) .Un’opera dell’artista berlinese Christian Burnoski che, al contrario, segue un movimento verticale ascendente, e si libra con leggerezza nell’aria. Come indica il titolo, il lavoro richiede di cambiare il palloncino ogni cinque giorni durante tutto il periodo della mostra e ciascun palloncino rappresenta tutti gli altri palloncini che lo precedono e che lo seguiranno. Il volume della pietra e quello del palloncino sono in relazione in modo che visivamente abbiano approssimativamente lo stesso “peso”. E, sul pavimento, i Punti Cardinali (2014) di Francesco Arena. E’ un piccolo lavoro in marmo bianco assoluto che indica le quattro direzioni e al cui sud, il punto in cui il sole è a Mezzogiorno – da dove soffia quel vento caldo che i marinai chiamano Ostro– è appesa una matita su carta di Giovanni Anselmo che si intitola proprio Sud (1967).

Seguendo poi il percorso prospettico del piano terra, definito in lontananza dalla sorgente luminosa del secondo cortile, si accede a quella che viene dominata “Sala degli Angeli”, nome dovuto alla presenza, tra gli altri, di due Angeli reggicortina. Le due sculture facevano parte di un cenotafio, opera del XV sec di Paolo da Gualdo Catteneo, in parte disperso e le cui parti esistenti, oltre alla Casa Museo, sono conservate al museo Bardini e al Metropolitan di New York.

ATP: Parlaci delle opere che sono state inserite in quest’ambiente.

RS: In verità tante. In questa sezione del museo è tra l’altro ospitata gran parte della collezione archeologica, reperti Etruschi, Greci e Romani sono esposti insieme ad oggetti e mobilio di diverse epoche e provenienze. L’allestimento di questa sala infatti, definisce e anticipa la scelta museografica di base: il voler rispettare la filosofia estetico-culturale di Ivan Bruschi, le suggestioni presenti nella sua collezione così eclettica e varia, nata da un’attrazione per l’arte in tutte le sue manifestazioni e che non lasciava spazio a pregiudizi. Qui è stata installata ad esempio Wounds and Absent Objects (2003) di Anish Kapoor, un omaggio a Barnett Newman, dove una singola immagine monocromatica simile ad una tela di Newman, muta progressivamente da toni più chiari a sfumature più scure. E poi una pergamena di Paolo Icaro, un oggetto a parete di Richard Tuttle, per citarne solo alcuni. In una vetrina dedicata ad oggetti originari di diversi paesi africani, tra numerosi reperti legati all’estrazione dell’oro, come cucchiai e pesi per raccogliere e quantificare la polvere d’oro Ashanti, o anche sculture lignee e maschere dell’Africa Occidentale è stato inserito un lavoro di Mona Hatoum composto da fragili griglie di capelli. Tra anima e materia, forma e informe, sono questi tracce liminali di umana corporeità. Di un minimalismo molto asciutto, l’opera si adagia tra pettini di legno duro e patina bruna, tutti provenienti dal Ghana Meridionale, tutti caratterizzati da un’impugnatura decorata a volte con figure geometriche, altre con la riproduzione della figura umana.

Nella cantina, piccola stanza quasi nascosta al piano terra del museo, si vedono raccolti, suddivisi per tipologie d’uso, tutti quegli oggetti di arte popolare che, per qualità esecutiva e capacità di suggestione, sono in grado di evocare i multiformi aspetti dell’operare e dell’agire umano. Tra forbici per la tosatura, scaldini, la zangola per la produzione del burro, paioli, contenitori per conserve e attrezzi per la semina, si sono insinuati i segni vibratili di un olio su tela del 1984 di Carla Accardi. Mentre su un tavolo da lavoro, realizzato in legno di pioppo ( XVII / XIII sec ), tra un telaio da ricamo e il tombolo, si adagia un lavoro di Jessica Stokholder che combina diversi materiali tra cui dei gomitoli di filato. Mi intrigava molto dare questa collocazione al lavoro di un’artista nota per i suoi accumuli di oggetti di uso domestico, tra cui anche utensili da cucina, e che ha da sempre indagato con sguardo impietoso gli assurdi legami tra le cose.

ATP: Quali sono in sostanza le linee guida alla base del display delle opere dalla collezione AGI?

RS: Le figure guida del percorso espositivo sono state quelle della mimesi, della metafora, e poi l’ossimoro, il chiasmo, l’ assonanza e la dissonanza. Potrei citarti moltissimi esempi che, all’interno della mostra, vanno in queste direzioni. Su una regalissima consolle con specchiera di età barocca è stata appoggiata The Princess (2003) di Adrian Paci. La foto ritrae Jolanda, la figlia dell’artista qui agghindata come una piccola principessa e in posa all’interno di Palazzo Visconti a Milano, dove il padre lavorava come restauratore durante i primi anni in Italia. E’ come se un desiderio si fosse magicamente avverato e la bambina, apparendo dall’imponente specchio, incorniciata da foglie di acanto e festoni d’oro, avesse doppiamente realizzato il suo sogno.

Tea with the Queen (2012) di Jonathan Monk è stato prodotto in edizione di otto tazze. Il lavoro, appoggiato su un tavolino di legno intarsiato, presenta due tesori inglesi per eccellenza: la tazza da tè e la Regina. L’immagine della Regina rimarrà all’interno della tazza, esattamente dove si trova, mentre il testo scritto all’esterno potrebbe essere gradualmente lavato via, facendo si che il lavoro diventi lentamente incompleto con il passare del tempo. Senza titolo (1966) di Giulio Paolini è un’opera che indaga gli elementi costitutivi del quadro, lo spazio della rappresentazione e la figura dell’autore il cui celato sguardo è stato allineato a quello di un busto in terracotta dipinta del XV sec. Il busto rappresenta un frate francescano dall’espressione assorta e con gli occhi rivolti verso il cielo.

Un passaggio a cui sono particolarmente legata è quello che riguarda il lavoro di Felix Gonzales Torres, collocato tra scrigni del XIV e XV sec. che venivano dati in dono alle giovani fanciulle prossime alle nozze. Era infatti uso, tra le famiglie nobili e dell’alta borghesia toscana, che lo sposo offrisse un forzierino colmo di gioielli alla fidanzata prima di sposarla. In particolare la bottega degli Embriachi, fondata a Firenze dal mercante Baldassarre Ubriachi poi trasferitosi a Venezia, produsse una grande quantità di cofanetti. Rivestiti in lamelle d’osso, i più lussuosi erano ornati da rilievi con storie di eroi dell’antichità o con narrazioni tratte dai romanzi medioevali o, quelli più recenti, da coppie di giovani in atteggiamenti galanti. Mi è sembrato più che naturale installare proprio in questa vetrina Untitled (Lover’s letter) (1981) un jigsaw-puzzle che compone i frammenti di una lettera d’amore.

Colmare il bocciolo,   combattere il verme,   regolare il calore,   eludere il vento,   sfuggire all'ape,   Exhibition view. Credits Laura Veneri and Francesca Neri

Colmare il bocciolo, combattere il verme, regolare il calore, eludere il vento, sfuggire all’ape, Exhibition view. Credits Laura Veneri and Francesca Neri

ATP: Che tipo di opere hai scelto per il secondo piano, quello che era l’appartamento privato di Ivan Bruschi?

RS: Direi dei lavori più intimi. Sulla parete sovrastante il camino del salotto, ad esempio, è stato appeso un autoritratto di Francesco Vezzoli, realizzato col fotografo di moda Francesco Scavullo e in cui Vezzoli si assimila a Veruska con evidente e ricercata ambiguità. Gli sguardi dell’artista e della modella, volti verso l’esterno dell’immagine, si allontanano l’uno dall’altro, distratti dall’altrove. Mentre quelli dei bassorilievi appoggiati sullo stesso camino si fronteggiano. I due tondi di gesso rappresentano un ritratto di nobildonna e uno di nobiluomo entrambi di profilo, ancora un uomo e una donna e le quattro figure vanno così a costituire una sorta di chiasmo immateriale. Mentre sul tavolino di fronte al divano è stato disposto un piccolo lavoro di Carl Andre. E ancora, un collage di Jorge Peris con brandelli di piumaggio d’uccelli, si confonde tra una collezione di stampe acquarellate di metà Ottocento che rappresentano dei volatili o, in corrispondenza di un ritratto manipolato di Markus Schinwald, un ritratto ad olio di nobiluomo non attribuito.

Lo studiolo, la stanza più piccola ma anche la più simbolica per la Casa Museo, una sorta di WunderKammer stracolma di documenti e libri antichi, ha accolto un piccolo cuore di farfalla di Mario Airò, una vetrinetta di James Beckett contenente dei filtri d’olio, un piccolo universo caotico di Neil Beloufa. Kerze // (1989) di Gerhard Richter, richiamando un soggetto caro alle vanitas e alla pittura di Georges de La Tour, rappresenta per l’appunto una candela accesa. L’opera è stata infatti collocata sopra un leggio di legno retto da due alti montanti e la sua fiamma fa luce su notturne letture. E ancora, Waypoint (2011) -un piccolo olio su lino di Anna Hughes-, è stato esposto tra reperti di bronzo, fibule, armille, anelli gemini, pendagli ed è come se a questi fosse sempre appartenuto. In questa vetrina, il reperto più importante per pregio e rarità, è un anello a sei nodi denominato “anellone piceno”, oggetto dalla funzione rituale, associato al culto della dea Cupra, dea della fecondità e della fertilità, e databile al VI sec a.C.

I Ten Plaster Surrogates (1982/1991) di Allan Mc Collum, sono dieci monocromi realizzati a mano ma standardizzati che integrano l’idea di arte con la produzione di massa. Sono stati appropriatamente collocati sopra il monetiere, un mobile contenente la collezione di monete composta da circa 4000 elementi, in oro, argento, bronzo e mistura che coprono un vasto arco archeologico, dall’aes rude sino al XX sec. D’altra parte un “surrogato” non si trova mai in modo isolato ma come parte di una profusione di oggetti apparentemente identici e offre l’impressione di una selezione arbitraria da un’insieme potenzialmente infinito. E poi il lavoro di Haris Epaminonda, che nello spazio della Biblioteca, trova in uno schedario il suo naturale supporto, e così via sino ad Untitled (Missing Piece) (2005) di Mario Garcia Torres. Un lavoro che apparentemente non esiste e si manifesta solo nello spazio fisico e tangibile di un foglio di carta in cui l’artista trascrive esclusivamente il proprio nome, il titolo e l’anno di realizzazione dell’intervento. E sono forse proprio queste perdite, mancanze e dispersioni ad alimentare continuamente ogni processo di significazione.

ATP: Mi affascina molto il titolo che hai scelto per la mostra,  “Colmare il bocciolo, combattere il verme, regolare il calore, eludere il vento, sfuggire all’ape”. A cosa si riferisce?

RS: Per l’edizione del 2015 e, sulla scia del concetto cardine dell’Expo di Milano, Icastica è stata incentrata sul tema della “cultura da coltivare”. Ho pensato all’idea di giardino come allegoria figurata di “collezione”. Al pari di un giardino, infatti, una collezione d’arte comporta una serie di operazioni precise e induce a riflettere sulla profonda responsabilità del fiorire e del bello. Il titolo riprende dei versi di Emily Dickinson quali metafora di un ingigantirsi di paesaggi infinitesimali che catturano l’inventiva dei visitatori.

Christian Flamm,   Totentanz von Basel,   2004,   feltr,   stivali,   30 x 60 x 120 cm. Credits Laura Veneri and Francesca Neri,   Courtesy Coll. AGI,   Verona

Christian Flamm, Totentanz von Basel, 2004, feltr, stivali, 30 x 60 x 120 cm. Credits Laura Veneri and Francesca Neri, Courtesy Coll. AGI, Verona

David Bernstein,   If Objects speak,   do they talk to themselves?2011-2013,   spatula di legno,   30 x 20 x 10 cm; Credits Laura Veneri and Francesca Neri,   Courtesy Coll. AGI,   Verona

David Bernstein, If Objects speak, do they talk to themselves?2011-2013, spatula di legno, 30 x 20 x 10 cm; Credits Laura Veneri and Francesca Neri, Courtesy Coll. AGI, Verona

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