Intervista con Mario Cresci

"Oggi siamo immersi nella luce della camera chiara e siamo entrati nei coni ottici di una realtà virtuale inarrestabile, le cui immagini non hanno più materia se non quella depositata nei monitor dei computer. È anche per questo profondo mutamento scientifico che la memoria della fotocopia sembra ancora più antica di quanto non lo sia in realtà. "
10 Aprile 2020
Mario Cresci, Analogie e Memoria (1967-1979)

L’inaugurazione della personale di Mario Cresci, in programma per il 7 Aprile da Matèria, a Roma, è stata posticipata a data da destinarsi. La galleria spera di poter fornire una nuova data non appena terminato il periodo di emergenza nazionale.

La personale dal titolo Combinazioni Provvisorie è accompagnata dalla riedizione del libro Misurazioni (l978), rivisitato e edito da YARD Press.

Mauro Zanchi: In Analogie e Memoria (1967-1979) le fotocopie sono «opere» nel senso di «arte come idea», una forma di rappresentazione alternativa rispetto alle fotografie? Sono da intendere come proposizioni che assolvono a una ulteriore attribuzione di senso?

Mario Cresci: L’uso della fotocopiatrice (sin dai miei primi lavori di ricerca a Venezia, agli inizi degli anni Sessanta) equivale all’uso della stampa eliografica da parte degli architetti per stampare i disegni su carta dai lucidi o radex dei progetti. La fotocopiatrice è uno strumento che mi serve come mezzo per ottenere altro, che mi permette la costruzione fisica dell’oggetto fotocopia. Lo aveva compreso molto bene ad esempio Bruno Munari, quando dal 1963 in poi realizza le sue prime Xerographie ottenute dalle nuove fotocopiatrici della Ranx Xerox, in cui era possibile usare il vetro della macchina in relazione al movimento orizzontale del carrello. Per Munari la macchina era uno strumento per alterare il significato di copia uguale all’originale, che era alla base delle funzioni primarie delle fotocopiatrici. Più era perfetta la copia rispetto all’originale e più la macchina veniva acquistata proprio per i vantaggi della sua precisione riproduttiva e della sua velocità di stampa. Invece Munari mette le mani sul piano del vetro e usa la macchina come se non fosse una fotocopiatrice; ne reinventa l’uso attraverso un processo autoriale, che è altro rispetto alla sua specifica funzione d’uso. Per la serie delle fotocopie nate a Matera alla fine degli anni Settanta non ricordo bene quali fossero le motivazioni di base, se non una in particolare che riguardava il mio desiderio di inglobare segni, immagini, scritte, disegni, appunti, frammenti di icone tenute negli archivi e nelle cassettiere insieme a progetti, collage, manifesti, estratti di testi e immagini stampate, fotografie di altri autori, perché in definitiva pensavo a un diario di un viaggio iconico, in cui tutti gli elementi erano composti tra loro nella simulazione di doppie pagine di un grande libro, che si univano come calamitate in un susseguirsi di emozioni, ottenute mettendo direttamente sul piano della fotocopiatrice le cose e le carte, che volta per volta andavo sistemando, spesso con altre parti incollate.

In questo senso posso confermarti che la serie di fotocopie sia da intendere come “proposizioni”, come frasi che articolano ulteriormente il processo conoscitivo delle opere. Non si relazionano con la materia della pittura e nemmeno con il processo fotochimico della fotografia, in quanto l’atto del fotocopiare intende ottenere velocemente l’immagine stampata su carta e si basa sul tempo reale dell’azione, nell’immediatezza del risultato finale, inclusa l’adozione di una nuova materia visiva scaturita dagli elementi da fotocopiare, e soprattutto sulla sorpresa del risultato finale, spesso non previsto. Non pensavo minimamente all’autoreferenzialità del gesto o a una dimensione artistica del fare, piuttosto a un progetto di fattibilità – il libro -, inteso come raccolta di memorie, come ricerca di senso del mio agire tra le pieghe dei linguaggi: una semplice operazione di raccolta delle tracce, che stavo lasciando anno per anno nelle mie attività artistiche, in un luogo particolare come Matera. È in fondo proprio il luogo che ha influito su tutto quello che andavo facendo. E anche la necessità di dare visibilità immediata all’enorme archivio di segni, immagini e scritture attraverso un contenitore – il libro –, che doveva diventare opera unica, un libro d’artista, un diario di bordo a cielo aperto, un incontro continuo di significati, rimandi, analogie, segni verso altri segni, forme che si modificano secondo sequenze, che nascevano dal vedere la realtà, anche attraverso il mezzo fotografico, ma non solo. Immagini fotocopiate nate ogni giorno in luoghi differenti, dove spesso mi accadeva di restare molte ore, come nelle tipografie di Matera, e di essere testimone dell‘evoluzione tecnologica che stava avvenendo con l’avvento dei primi Mac e delle prime stampanti ad aghi.

MZ: Cerchi di mettere in atto una sorta di occultamento dell’autore o una spersonalizzazione dell’opera? La riproduzione “povera” del quotidiano attraverso la fotocopia intende denunciare l’equivocità del «quadro» dell’arte?

MC: Sono indubbi la mia appartenenza al “pensiero poverista” degli anni Settanta e il mio grande interesse che ho sempre avuto verso artisti come Boetti, Fabro, Penone, Paolini, Bill Viola, (quelli della mia generazione), mentre non potrei dire la stessa cosa per i fotografi contemporanei, salvo pochissimi in quegli anni, come Walker Evans, Luigi Ghirri, Ugo Mulas delle “Verifiche”, Robert Frank e pochi altri. Forse è da questa scelta che ho sempre inteso la fotografia come un linguaggio che andava continuamente esplorato e mai accettato con tutto il suo gravame ideologico di stampo bressoniano, tipica espressione della grandeur francese, del “noi abbiamo inventato la fotografia”, ma soprattutto esaltazione di una ideologia del vedere il mondo con lo stesso identico sguardo di tutta una vita; il mondo cambia e lo sguardo del fotografo lo segue nei suoi cambiamenti; il referente cambia mentre il suo sguardo è sempre lo stesso. È come un registratore che una volta impostati i parametri e le coordinate del vedere li adotta sempre ormai acquisiti e inglobati nello spazio del mirino. Questo è in gran parte il reportage fotografico, con tutto il rispetto per quello d’azione, in cui il fotografo è testimone di guerre o di avvenimenti pericolosi o documenta storie, cose e persone, con la limpidezza di uno sguardo lucido e partecipe, da comunicare sulla carta stampata. Ho meno rispetto, invece, per quei reportages sulle miserie umane del mondo, dalle miniere di carbone ai grandi esodi dei migranti e dei naufraghi, che diventano merce spettacolare per mettere in bella forma i drammi delle persone, e con esse fare mostre e libri, con volti di bimbi in primo piano, con gli occhi azzurri, che guardano il fotografo che sussurra loro: “Attento, guarda nell’obiettivo, sposta un poco la testa, ok così va bene”. Forse la produzione “povera” di questa serie di fotocopie nasce anche da questo mio progressivo allontanamento da una fotografia omologata, acritica, molto spesso puramente estetica e debolissima sul piano del pensiero. Spesso dovremmo domandarci la ragione del fare certe scelte. Perché faccio questa fotografia e qual è il senso di appagamento che ne deriva all’autore? E in fondo cosa desidero comunicare? Domande che mi pongo ancora oggi a tarda età, in cui lo sguardo sul passato non deve diventare omaggio alla retorica, ma propulsione verso il futuro, finché c’è aria da respirare, parole, pensieri e affetti da condividere. Qui l’atto del fotografare si mescola con i segni e disegni non solo di oggetti ma anche di volti, mani, animali e particolari di dettagli, testi e immagini riprodotti, e il tutto si amalgama nella più sintetica esclusione di ogni possibile concetto di bellezza formale. Il foglio di fotocopia in bianco e nero, escludendo l’originale, a volte a colori da cui è tratto, è in definitiva un azzeramento della fotografia e dello stesso concetto-feticcio dell’originale. Ancora oggi ho difficoltà a spiegare la ragione di una scelta contraria al cosiddetto buonsenso del collezionismo e del mercato dell’arte, e solo un giovane e bravo gallerista (Niccolò Fano) ha avuto il coraggio di comprendere il significato di questa apparente perdita di valore dell’opera. Se è una fotocopia, anche se intesa come copia unica, è pur sempre una banale fotocopia, e la realtà per forza di cose è questa e basta. Insomma non è semplice superare i dubbi di fronte a questa operazione. Me ne rendo conto anche se sono convinto del contrario.

Mario Cresci, Analogie e Memoria (1967-1979)
Mario Cresci, Analogie e Memoria (1967-1979)
Mario Cresci, Analogie e Memoria (1967-1979)

MZ: Il mondo è pieno di immagini più o meno interessanti. Tu non intendi crearne ulteriori, ma attraverso le fotocopie dichiari l’esistenza delle cose in termini di tempo e spazio.  L’opera concerne se stessa (anche nel senso tautologico) in relazione con altre cose e questioni, la cui interrelazionalità è al di là dell’esperienza percettiva diretta? Poiché l’opera è al di là dell’esperienza percettiva diretta, la conoscenza dell’opera dipende da un sistema di documentazione. La documentazione prende la forma di metafotografie, scansioni, segni, intesi come simulacri del reale. Cosa allude la tua scelta legata alla fotocopia?

MC: È probabile che risponda alle tue domande navigando da una all’altra, come una barca in mare in cerca di approdo. Metafora non troppo errata se penso che in tutto ciò che scrivo sulle ragioni di questo mio particolare lavoro non c’è nessun sostegno teorico che sia sufficientemente forte e utile all’individuazione di una possibile rotta da seguire. Ogni tanto esce la mia natura di ligure, uomo di mare emigrato sulla terra ferma del Sud e poi riemigrato a Bergamo e qui stabile dal quasi vent’anni.

Ho una sorpresa per te caro Mauro, eccola:

Il mondo è pieno di oggetti più o meno interessanti. Tu non intendi crearne ulteriori, ma attraverso le fotocopie  dichiari l’esistenza delle cose in termini di tempo e spazio.  L’opera concerne se stessa (anche nel senso tautologico) in relazione con altre cose e questioni, la cui interrelazionalità è al di là dell’esperienza percettiva diretta. Poiché l’opera è al di là dell’esperienza percettiva diretta, la conoscenza dell’opera dipende da un sistema di documentazione. La documentazione prende la forma di metafotografie, scansioni, segni, intesi come simulacri del reale. Cosa allude la tua scelta legata alla fotocopia?

Ho tolto i punti interrogativi e ho lasciato solo l’ultima domanda come tale. Il pregio delle tue domande è in effetti quello di occultare lievemente le risposte già insite in esse, perché in realtà mi ritrovo spesso nella ricerca di senso da te evocata… Non posso che essere d’accordo con le tue domande. Per esempio nel rapporto con il tempo e lo spazio dell’oggetto aggiungerei l’estensione alla conoscenza del contesto di vita in cui una persona si trova a vivere la propria “umanità”. Ed è proprio in questo senso che dovrei aver pensato in quegli anni, mentre raccoglievo, fotocopiandoli, i frammenti dei segni e delle forme che andavo elaborando durante i miei rapporti di lavoro con la società di Matera. Avvertivo che la interrelazionalità dell’esperienza percettiva diretta era connessa al cambiamento tecnologico dei mezzi e degli strumenti per produzione di artefatti soprattutto cartacei, ma non solo, perché mi interessavano anche le materie come la creta, la cartapesta, l’intaglio manuale del legno da parte dei pastori, il disegno tipografico e la stampa serigrafica. Sentivo che le materie e le lavorazioni di tradizione stavano velocemente mutando in profondità dentro al sistema produttivo delle piccole e medie imprese artigianali. Ad esempio, la materia della stampa tipografica, dopo aver superato gli anni della stampa offset e dopo aver lasciato nei magazzini le vecchie e rumorose linotype, si stava modificando nell’area immateriale dei monitor dei primi computer. La scelta di usare la fotocopiatrice e di accettare forse l’ultima fase di una materia sintetica vicina all’idea della traccia e dell’impronta del reale prodotta velocemente in tempo reale come fare una polaroid, (oggi si direbbe come un selfie), era forse per me un modus operandi che anticipava l‘idea di “postfotografia”, oggi emersa con grande interesse anche da parte dei teorici dell’arte. Non è un caso che spesso mi ritrovavo a citare Munari e Boetti tra gli autori italiani, ma soprattutto è stato Duchamp il mio principale punto di riferimento, insieme al pensiero e alla cultura di un grande sociologo meridionalista qual era Aldo Musacchio, con cui ho lavorato per alcuni anni a Venezia e in Basilicata. L’uso della fotocopia forse è stato l’ultimo mio atto iconico per comunicare un’epoca che si stava trasformando attraverso una forma di radicalizzazione e di sottrazione di ogni orpello estetizzante (che ho sempre cercato di evitare), il cui unico documento sono queste 56 “impronte” di fotocopie, per simulare le doppie pagine di un grande libro che non ho mai realizzato. Potrei continuare in un’autoanalisi più approfondita grazie anche alle tue domande che trovo sempre stimolanti e riflessive ma al momento preferisco risponderti indicando questo testo di G. Regnani, che ho trovato in internet a proposito del libro di Fontcuberta, in cui si pone l’accento sulla smaterializzazione delle cose e di conseguenza la materia come oggetto visibile: «[]non servirà più, tranne in quanto stampo sul quale la forma viene modellata. Dateci qualche negativo di una cosa che vale la pena vedere, presa da punti di vista differenti: è tutto ciò che ci serve. Demolitela o datele fuoco, se vi va. Forse dovremo sacrificare parte del piacere nella perdita del colore; ma forma, luce e ombra sono ciò che conta, e persino il colore può essere aggiunto, e forse col tempo potrà essere ottenuto direttamente dalla natura […] C’è solo un Colosseo o un Pantheon; ma quanti milioni di potenziali negativi hanno emanato – campioni di miliardi di immagini – da quando sono stati costruiti! La materia in grandi masse è sempre statica e costosa; la forma è economica e trasportabile. Ormai possediamo il frutto della creazione, senza più il fastidio del nocciolo. Qualunque oggetto della Natura e dell’Arte si spoglierà della sua superficie per cederla a noi. Gli uomini daranno la caccia a tutti gli oggetti curiosi, belli, grandiosi, così come oggi cacciano il bestiame in Sud America, per impadronirsi delle pelli, abbandonando le inutili carcasse. La conseguenza immediata sarà un’enorme collezione di forme che dovranno essere classificate e ordinate in grandi biblioteche, così come oggi lo sono i libri» (Oliver Wendel Holmes, Il mondo fatto immagine, a cura di Giovanni Fiorentino, 1995).

Mario Cresci, Analogie e Memoria (1967-1979)
Mario Cresci, Analogie e Memoria (1967-1979)
Mario Cresci, Analogie e Memoria (1967-1979)

MZ: Le fotocopie interrogano l’arte, ma questa interrogazione non può essere vista che come un epifenomeno a una elaborazione che potrebbe essere ancora «espressiva», anche nel senso di opere in cui è possibile innescare altre interpretazioni. Pertanto, questi interventi sono da intendere come risolutamente analitici, come indagine puntuale e definitiva dei risultati?

MC: A livello di coscienza non mi sono mai chiesto se la materia della carta fotocopiata fosse un fenomeno accessorio o secondario a livello espressivo. Credo comunque che ogni tentativo di sperimentare dentro all’arte non debba avere nessun dogma e nessun tipo di convenzione di pensiero, di materia e di mezzi manuali o tecnici, che ne limitino l’energia creativa. Sono abbastanza convinto che le mie doppie pagine, ottenute da una macchina da stampa progettata per riprodurre un originale in un numero infinito di copie, rappresentino un desiderio di smontare le norme e le modalità d’uso di un sistema prefabbricato a monte e che il compito dell’artista debba essere sempre quello di smontare e ricomporre situazioni convenzionali per ricrearne altre e diverse, per il semplice fatto di fare spostamenti minimi o invasivi a seconda del tipo di ricerca, nel mio caso a valenza bidimensionale di immagini. In questa operazione, molto semplice e diretta rispetto alle pratiche artistiche, ho ritrovato l’immediatezza di un approccio analitico e radicale nel trattamento foto-grafico dei segni, senza passare nei tempi lunghi della camera oscura. In quegli anni non c’era l’attuale mondo digitale e la camera oscura era parte fondamentale negli studi dei fotografi con le porte aperte agli artisti. Al termine di queste nostre note di lavoro, dimenticavo di indicare che la serie delle 56 fotocopie era nata dall’idea di considerarle fisicamente come copie uniche, avendo eliminato le parti che andavo a comporre a mano sul piano orizzontale del vetro. In questo senso volevo rendere esplicita questa scelta come un atto non provocatorio ma significativo per il mio lavoro di fotografo orientato alla ricerca e al progetto. Del resto avevo iniziato a Tricarico nel 1967 nella serie dell’icona fotografica, isolata da un negativo in bianco e nero e usata come matrice al tratto, proiettata sulla carta fotosensibile mossa a mano nei vari movimenti. Anche in questo caso usavo l’ingranditore e il piano di ripresa come due superfici dinamiche, in cui il movimento del foglio registrava le sfumature di grigi ottenute dai diversi tempi di esposizione manuale alla luce. Nessun fotografo avrebbe consentito di toccare o muovere la carta fotosensibile fuori dal marginatore che la teneva perfettamente sotto la luce dell’ingranditore. Come Munari spostava il foglio di carta nella Ranx Xerox e come molti altri artisti avevano già iniziato negli anni Sessanta con le prime fotocopiatrici, mi sembrava naturale trasferire nel processo fotochimico della fotografia in camera oscura ciò che vedevo al di fuori dal contesto del fotografico. Negli anni successivi poco prima dell’avvento del Mac la presenza della fotocopiatrice nel mio studio aveva iniziato a togliere priorità alla camera oscura e nel processo di velocizzazione dei passaggi fotomeccanici tra pellicole al tratto e retinate, copyproof a colori e in bianco e nero, carte color Pantone su fogli di acetato, la nuova macchina delle copie stava trasformando le modalità della vecchia “camera obscura” in quelle della “camera chiara”.

Oggi siamo immersi nella luce della camera chiara e siamo entrati nei coni ottici di una realtà virtuale inarrestabile, le cui immagini non hanno più materia se non quella depositata nei monitor dei computer. È anche per questo profondo mutamento scientifico che la memoria della fotocopia sembra ancora più antica di quanto non lo sia in realtà. Il tempo agisce sull’intera sfera concettuale e percettiva del nostro vedere, ma soprattutto del nostro sentire.

MZ: Da dove nasce l’idea di Cronistorie (1970)? Quali erano i presupposti concettuali che ti hanno portato a utilizzare una telecamera invece che una macchina fotografica?

MC: Cronistorie andrebbe visto soprattutto oggi non come un’opera prettamente filmica ma anch’essa immersa dentro al mio continuo desiderio che era sin da allora quello della sperimentazione dei linguaggi e delle tecniche di rappresentazione, in cui non esistevano più barriere disciplinari addirittura fuori dalle stesse motivazioni storiche delle avanguardie. Mi avevano affascinato i film di Man Ray, di Melies soprattutto, Duchamp; tutto questo paradossalmente in un contesto sociale dove sembrava che il tempo della storia si fosse fermato a Tricarico ancor prima che a Eboli, come aveva già scritto Carlo Levi. Il termine “Cronistorie” mi fu indicato da Luciano Inga-Pin nella sua Galleria Il Diagramma di Milano, quando gli feci vedere il filmato; e questo mi riporta dentro al mondo dell’arte, che come ho detto più volte mi ha sempre interessato maggiormente rispetto a quello della fotografia e dei fotografi, che ho sempre sentito molto limitato e corporativo, in senso restrittivo a livello di ricerca e di aperture verso le altre forme di espressione artistica. Ritornando a “Cronistorie” e alla serie delle fotocopie sento e credo che i due momenti vadano considerati fortemente legati tra loro se devo comunicarti quello che sentivo in quegli anni ormai lontani anche dalla mia memoria, che se ne sta andando con il passare del tempo. Ricordo solo quello che mi è rimasto naturalmente impresso nella memoria senza forzature e senza sovrapposizioni di senso, che non fossero stati quegli eventi vissuti in prima persona. Per cui mettere sempre assieme le cose, metterle in connessione tra loro, dove le parole e gli sguardi e le infinite trasmissioni cognitive, che mi venivano incontro anche senza volerlo, causavano un continuo rimando tra ciò che sentivo e ciò che vedevo fuori da ogni pensiero che non fosse ancorato al vissuto.

MZ: Il racconto filmico parte dalle foglie di una pianta grassa, cresciute come fiamme in cerchio attorno al nucleo di ogni vita che sboccia, e termina con le erbe alte sommosse dal vento in un campo. Cosa sta tra l’inizio – che pare evocare una favola popolare e contadina – e i vari sacrifici del mondo contadino (asino, maiale, lupo), passando a una processione rurale condotta dalle insegne del clero, fino all’ondeggiamento delle erbe sommosse dal vento?

MC: Avevo usato i contatti in 16mm del lungometraggio per creare una serie di strutture visive che passavano dall’idea della provinatura come descrizione dei fotogrammi all’idea che essi potevano diventare a loro volta una nuova e diversa struttura narrativa come accumulo di segni, quasi textures costruite dall’accostamento di alcuni metri di pellicola tagliata a piccoli settori accostati tra loro e disposti sotto un vetro a contatto con i fogli di carta fotografica sotto la luce dell’ingranditore. All’origine il filmato non montato durava più di mezz’ora e attualmente è ancora conservato nella classica “pizza” in cui si conservavano i film. L’attuale versione molto ridotta è solo una sintesi di un progetto che nella sua interezza non si è mai concluso. In quegli anni conoscevo le ricerche filmiche di Stan Brakhage e pensando a Man Ray avevo già realizzato la serie della bambina di Tricarico sempre in situazioni di off camera. Cronistorie cerca di unire il senso della sperimentazione filmica e fotografica delle avanguardie storiche con la cultura materiale del territorio lucano e con gli studi che stavo avviando sulle ricerche etnografiche di Ernesto De Martino nelle regioni del Sud. Era la cultura materiale delle cose che aveva preso il sopravvento nelle letture sul Mezzogiorno, le poesie e i racconti di Rocco Scotellaro e le fotografie delle persone e delle cose, animali inclusi e i disegni che realizzavo come progetti utopici in cui l’organico si incontrava con l’inorganico; la natura si misurava con l’artificio, i materiali e i processi di produzione manuali rispetto a quelli dell’industria del Nord che avevo studiato, in primis la storia di Olivetti, dove avevo lavorato per un anno agli inizi degli anni Settanta nella sede di Via Camperio a Milano. Cronistorie si colloca nel 1970 dentro a questo coacervo di esperienze e di contaminazioni di pensiero e di sguardi, coni ottici spesso lievemente anarchici, sguardi fuori dal seminato, perché volevo capire le ragioni del mio disadattamento verso le norme del sentire e del vedere, che animavano la realtà di quegli anni. L’arte era per me l’unico modo per sopravvivere e restare lontano da tutto ciò che ritenevo e che sentivo disumano, sbagliato e falso. Il filmato è in fondo anche questo concentrato di malessere che trova in un luogo particolare come Tricarico, quello che poi riscontrai era simile a Macondo in Cent’anni di solitudine.

Bergamo, febbraio-marzo 2020

Mario Cresci, Cronistorie (1970)
Mario Cresci, Cronistorie (1970), Fotogramma
Mario Cresci, Cronistorie (1970), Fotogrammi
Mario Cresci, Cronistorie (1970)
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