Intervista con Elena Bellantoni: perché l’arte è un gioco ‘serio’

"Definisco i mei lavori più azioni che performance. Io non lavoro con un copione ma sempre sul qui e ora, sfruttando l’elemento della tensione. Non so mai bene cosa succederà perché non esiste per me una mise en scène..."
30 Novembre 2017

A cura di Marta Silvi

Elena Bellantoni usa le immagini e le azioni come linguaggio metaforico che evoca e racconta mondi altri.
La personale I give you my word, I give you my world, appena conclusa presso la Fondazione Pietro Rossini di Briosco, a cura di Francesca Guerisoli, raccoglie in maniera esaustiva più di dieci anni di lavoro, fotografando un percorso personale e artistico fortemente identitario. La rappresentazione del sé (l’artista è sempre coinvolta in prima persona, sia nei lavori video che nelle performance), dell’altro da sé, dell’interfaccia, dell’alter ego, del doppio, sono alcuni tra i fil rouge che muovono la sua ricerca. Lo spostamento, il viaggio, l’esplorazione, l’attraversamento della distanza (nei suoi video l’artista appare quasi sempre protagonista in movimento) è la modalità operativa ed esistenziale che sottende il suo lavoro.
Oggi ci racconta il suo universo artistico.

MS: Hai definito il corposo progetto concepito per la Fondazione Rossini come una sorta di “retrospettiva”, la chiusura di un ciclo produttivo, un momento di passaggio. Se dovessi portare via con te uno scatto singolo sulla tua produzione passata, quale sarebbe?

Elena Bellantoni: Se dovessi portare via qualcosa sarebbe la parola re-esistenza, quell’idea che mi spinge a produrre e andare avanti, quel confine su cui spingo il mio lavoro, il mio corpo quando eseguo le performance. L’immagine potrebbe essere uno still da video di Maremoto in cui, in sella a una bicicletta, cerco di attraversare il Mediterraneo – un’azione di natura impossibile – da cui poi emerge l’Altro da me.

MS: Rossini Art Site è un parco di sculture di 10 ettari, che si estende nella Valle del Lambro, in Brianza, e ospita opere di artisti di fama internazionale, come Pietro Consagra, Bruno Munari, Giò Pomodoro, Fausto Melotti, Andrea Cascella e Grazia Varisco, tra gli altri. Cosa ha voluto dire per te dialogare con queste “ingombranti” presenze?

EB: Il parco è un posto incredibile. Intervenire in questo spazio, già molto connotato di per sé, è stata una sfida ambiziosa in cui ho cercato di ricollocare il mio linguaggio espressivo dando una forma visiva apparentemente più “leggera” rispetto alle opere rilevanti già presenti.
Ho proposto tre performance – tra le più significative della mia ultima produzione – che si sono consumate nell’arco di una giornata lasciando così nel parco le tracce di questi interventi.
Con Effetto Butterfly ho concepito un’installazione site-specif immateriale, utilizzando il campo da tennis privato della famiglia Rossini, che si trova al confine con il parco. Ho voluto impiegare il suono di una partita di tennis, mentre gli spettatori erano invitati a entrare, sperimentare e vedere un gioco invisibile: un omaggio alla scena finale di Blow Up di Antonioni. Ho cercato di intervenire nel parco attivando delle dinamiche legate al gioco, al linguaggio, attraverso un’esperienza relazionale sia fisica che emotiva.

Elena Bellantoni - Effetto butterfly 2017 installazione site specifc

Elena Bellantoni – Effetto butterfly 2017 installazione site specifc

MS: La vita di Alberto Rossini, imprenditore e mecenate illuminato, ha dell’incredibile. Il 13 maggio 2015 si spegne nella sua casa di Briosco, un mese dopo la realizzazione del suo sogno più grande: aprire al pubblico il ‘Rossini Art Site’.
Questa figura ti ha in qualche modo ispirato nel concepimento della tua mostra? Come è avvenuto l’incontro con la Fondazione?

EB: Non ho conosciuto personalmente Alberto Rossini, ma i figli Matteo e Marco, le rispettive famiglie e la splendida Signora Luisa. Mi sono interfacciata non direttamente con lui ma con quello che lui amava: l’Arte e ciò che resta del suo più grande desiderio, il Parco.
La presenza di Rossini è viva in tutte le narrazioni famigliari, in chi ha lavorato con lui e in chi ha ricevuto il suo testimone. Credo sia stato un grande visionario, un mecenate che amava le sfide, stesse caratteristiche ereditate da Matteo Rossini, il figlio maggiore, che ha creato la Fondazione in cui si ospitano le mostre all’interno del Parco. Per questo progetto espositivo mi sono confrontata con lui e con Francesca Guerisoli, che mi ha invitato, lavorando nell’arco di un anno per la costruzione di questa mostra.

MS: Hai scelto un titolo particolarmente evocativo, I give you my word, I give you my World, sviluppando un progetto a partire dal linguaggio e dal gioco. Tu stessa definisci le parole quali “simboli e segni di un altrove da scoprire”, “luoghi da abitare, luoghi di scambio e di incontro”, “un ponte verso l’altro da sé”.
Il linguaggio è stato oggetto di indagine per tutta una generazione di artisti che a partire dalla fine degli anni Sessanta ha identificato in esso il modo per riportare l’arte a significati puri, letterali, tautologici. Ti interessa quel tipo di ricerca o cosa te ne distanzia?

EB: La scrittura è forma. Le parole sono come immagini – chiariva bene Faucalut a proposito dell’opera Questa non è una pipa di Magritte nell’omonimo testo – assumono la solidità di un oggetto. Alla fine degli anni sessanta Kosuth radicalizza il metodo di Magritte, lo raffredda fino a farlo divenire pura analisi di laboratorio del linguaggio e del suo funzionamento.
L’etimologia di “parola” deriva del greco para-ballo, girare intorno a qualcosa; mi interessa la fisicità di questa definizione dove il linguaggio diviene infatti un’azione che nel suo movimento definisce un nuovo spazio, che chiamo “relazionale”. Nelle mie performance il gesto della scrittura attraverso un oggetto diventa l’atto artistico, che prende forma da una spinta interna ed emotiva sublimata nell’oggetto stesso. Si crea così un discorso collettivo che emerge tra le parole scritte che circolano nello spazio tra me e chi partecipa. Quello che io attivo non è solo il pensiero, lo spostamento/svuotamento tra forma e significato – come forse avveniva nelle ricerche degli anni Settanta – ma l’atto simbolico del dare la parola.
Esiste una qualità “infantile” di questo processo che evoca qualcosa di molto antico, qualcosa che per me ha a fare con il processo creativo. L’artista per me è un traduttore di segni, un “semionauta” (come lo definisce Borriaud in The Radicant) che ricerca e mette insieme pezzi di questo mondo frammentato. La parola diventa un confine, la terra fertile in cui arte e vita si incontrano.

Elena Bellantoni - Maremoto 2016 video installazione video full HD6'48''

Elena Bellantoni – Maremoto 2016 video installazione video full HD6’48”

MS: Ti esprimi da sempre attraverso il video, il disegno, la fotografia, la performance, l’istallazione e la pittura, quale di questi media ti rappresenta meglio o, altrimenti, in quale modo ognuno di essi è in grado di comunicare la tua ricerca?

EB: Non esiste un mezzo privilegiato. Nel mio lavoro utilizzo vari linguaggi che tessono la relazione tra me e il reale. Definisco il mio lavoro d’investigazione, restituendone al mondo le tracce. I temi, le urgenze che affronto, l’identità, la relazione e l’altro, si declinano in varie forme sebbene dietro ogni produzione ci sia un’evoluzione che mi conduce a scegliere uno strumento di restituzione piuttosto che un altro. In Hala Yella addio/adios, 2013, il lungo viaggio che ho affrontato per arrivare “in culo al mondo”, ovvero in Patagonia, è stato parte integrante del processo di lavoro, 3 mesi di ricerca nel sud del Cile, finalizzato a incontrare Cristina Calderon, l’ultima donna della stirpe Yaghan – popolazione nativa del territorio antartico meridionale. Quando Cristina non ci sarà più insieme a lei scomparirà una lingua e una cultura millenaria. Il video che documenta il dialogo con “l’abuela” e una serie di disegni a china, un abbecedario illustrato, sono diventati il luogo di questo incontro.
In DreamEscape dopo molti anni sono tornata alla pittura per raccontare storie ai margini della periferia. Ho pensato che il video in questo caso potesse risultare retorico, così ho deciso di servirmi del linguaggio pittorico per prendere distanza da questo Altro – giovanissime prostitute nigeriane – e trasportarlo su un piano simbolico. Accanto alle pitture, di chiaro gusto “impressionista”, che nella goie de vivre del colore contrastano la decadenza del soggetto, ho presentato un video “surreale” girato con una bambina che, mentre passeggia nel Museo Civico di Storia Naturale di Milano, legge estratti de La Banalità del Male di Hannah Arendt. Ambedue i progetti seguono le tracce dell’incontro ma acquisiscono forme differenti.

MS: Anche il concetto di spostamento, di migrazione, di traduzione e perciò interfaccia (ricordo la mostra I/F Interface cui hai partecipato nel 2010 presso il Museo Laboratorio della “Sapienza” a Roma) sono temi a te molto cari.

EB: Sono di origine calabrese ma ho trascorso la mia primissima infanzia in Africa, sono cresciuta a Roma e migrata per otto anni a Berlino, poi Londra e ora di nuovo di base in Italia, mentre il mio lavoro mi ha portato a viaggiare molto in America Latina e in altri luoghi. Per diverso tempo mi sono interessata al concetto di lingua e traduzione nelle arti visive con il progetto Platform Translation che, dopo quattro anni, si è concluso nel 2012 con un’importante mostra alla Kunstraum Kreuzberg Bethanien e al NGBK di Berlino. In PT la traduzione emerge come una delle misure di “spostamento” tra due culture e comprende nozioni di circolarità e di mutabilità, oltre che di perdita a causa dell’impossibilità di un perfetto transfert tra due diversi contesti culturali, come chiarisce bene Walter Benjamin ne “Il compito del traduttore”.  Il traduttore è a tutti gli effetti un agente doppio (direbbe Paolo Fabbri) o, diciamo pure, una spia. Che furtivamente, sotto falso nome, riporta notizie riservate alla cultura da cui traduce. Ma, nel mettere a rischio la propria lingua e la propria cultura con l’atto della traduzione, egli ne diviene “traditore”.
Nei mei lavori per diverso tempo mi sono concentrata sui concetti di spostamento, attraversamento e marginalità del soggetto linguistico che ho declinato come nomade.
L’esperienza nomade del linguaggio, che vaga senza fissa dimora, abita i crocevia del mondo, regge il nostro senso dell’essere e della differenza, non è più l’espressione di una storia unica o di una tradizione. Questo implica un senso diverso di “dimora” di essere al mondo, significa concepire la residenza come qualcosa in movimento. Il pensiero migra, va tradotto.

MS: Il doppio come raffigurazione del sé o dell’altro da sé, ricorre nei tuoi video (Maremoto, 2016, I Giocatori, 2014, Looking for E.B., 2012, Ich bin… du bist, 2010), nelle performance (Impero Ottomano 2015-2017, Effetto Butterfly, 2017) e nelle installazioni (Parole Cunzate, 2017, L’età dell’oro, 2017). Che valenza ha questo tema all’interno del tuo lavoro?

EB: Sono nata un anno e tre giorni dopo mia sorella, questo significa che da sempre mi sono confrontata con questo “Altro”, non doppio ma differente da me. Da bambine giocavamo non rivelando a nessuno la nostra “sorellanza”, così le persone la scoprivano dopo tempo.
La mia tesi in Storia dell’Arte Contemporanea era sulla mise en abyme (messa in abisso) ovvero su quel procedimento preso in prestito dall’araldica medievale, nel quale un’immagine contiene una piccola copia di sé stessa, ripetendo la sequenza apparentemente all’infinito. Il passaggio attraverso lo specchio, come una moderna Alice – porta al tentativo di definizione del sé e inevitabilmente all’incontro con l’Altro. Dai primi lavori video in solitaria, girati “domesticamente” nel mio studio, sono passata a progetti di natura relazionale in cui c’è uno scambio continuo tra me e il reale.
L’Altro, dunque, ci restituisce un’immagine di noi, fa da specchio a volte ci infastidisce, ci espropria e ci espone, è quello che Jean Luc Nancy definisce l’Intruso: da un lato, un intruso che salva, dall’altro, che mette anche a repentaglio la vita stessa. L’intruso, conclude Nancy, non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso, non è nessun altro se non lo stesso che non smette mai di alterarsi.

Elena Bellantonio - The beauty and the beast 2017 video still courtesy of the artist

Elena Bellantoni – The beauty and the beast 2017 video still courtesy of the artist

MS: Riferendosi agli anni Ottanta e Novanta Teresa Macrì afferma: “La performance ha cambiato pelle, è camaleontica e ossessiva ma staccata dalla sua violenza inconscia. Non ha l’assolutezza ancestrale degli anni Settanta, salta quasi l’aggancio con la ritualità, sorvola qualsiasi legame con la teatralità, con l’organico come materia privilegiata” (T. Macrì, Il corpo postorganico, Costa & Nolan, Genova, 1996).
Cosa rappresenta la performance per te oggi?

EB: Definisco i mei lavori più azioni che performance. Io non lavoro con un copione ma sempre sul qui e ora, sfruttando l’elemento della tensione. Non so mai bene cosa succederà perché non esiste per me una mise en scène ma piuttosto un’intuizione, un’immagine di natura poetica e visiva da cui parto sempre per sviluppare le mie opere.
Le azioni che progetto si inseriscono sempre in un territorio o spazio che analizzo e in cui mi ricolloco, seguendo il fil rouge della mia ricerca. Parole Cunzate indaga il concetto di rottura e di trauma. Lo spettatore è invitato a partecipare alla rottura e alla cunzatura di un piatto. Il termine “cunzare” deriva dal dialetto ostunese e si riferisce all’antica arte di mettere a posto, sistemare e rammendare piatti e oggetti rotti, legati alla vita quotidiana.
Impero Ottomano invita lo spettatore a elaborare un gioco di resistenza e a riflettere sul concetto di resilienza psicologica e fisica. Durante la prova fisica – il braccio di ferro – domando: “cosa resiste?”. Le risposte sono trascritte sulla placca di ottone che compone l’installazione.
Parole Passeggere si compone di storie di passaggio: il pubblico è invitato a sedersi e a scrivere narrazioni, pensieri, parole utilizzando delle vecchie Olivetti Lettera 32. La performance è stata realizzata per la prima volta nel porticato della Stazione Ostiense, luogo di passaggio per i pendolari della città di Roma, in collaborazione con il museo MAXXI.
L’elemento del gioco è molto forte in questa mia produzione; le regole sono chiare, il setting che accompagna ogni azione è ben delineato – lascio sempre dei fogli scritti con la “declinazione” della mia azione – non c’è una sceneggiatura, ma nulla viene lasciato al caso nella costruzione della dinamica: io lavoro sull’emotività non sfruttandola ma inserendola in un contesto ben definito. In questo senso il mio non è un lavoro magico-rituale, ma si poggia sulla concretezza della nostra esistenza. Chi decide di partecipare accetta in piena libertà le mie “direttive”, si mette in gioco e corre dei rischi, perché l’arte è un gioco “serio”.

MS: Trattandosi di una personale esaustiva che segna un punto nel tuo percorso, quali i nuovi progetti in cantiere e quali i nuovi orizzonti verso cui ti stai spingendo?

EB: I give you my word, I give you my world è realmente un punto di cesura del mio lavoro perché credo che alcune delle performance di cui ti ho appena parlato, si chiuderanno qui. Questo non significa che non perfomerò più. Anzi, sto preparando una nuova azione per il Museo Pietro Canonica di Roma, a cura di Claudio Libero Pisano, per questo dicembre. A maggio 2018 uscirà il catalogo della personale alla Fondazione Rossini, che presenteremo con Francesca Guerisoli direttamente in Fondazione.
Utilizzare le installazioni come terreno di scambio mi diverte e mi stimola visivamente, questa sicuramente è una delle strade intraprese.
Nel frattempo all’orizzonte si profilano nuove esplorazioni: sono appena rientrata da una residenza alla Fondazione Pistoletto che si è svolta tra Biella e Scutari. Seguiti da Adrian Paci come tutor siamo arrivati in Albania dove abbiamo visitato il suo progetto grandioso: “Art House”, ovvero la sua casa natale trasformata in uno spazio per l’arte contemporanea che accoglie mostre e artisti in residenza. Ora ti rispondo da NYC dove mi sono recata per una prima perlustrazione. Avrò un 2018 molto denso, ricco di nuovi progetti artistici personali. Ma questa – come scriveva Michael Ende – è un’altra storia…

MS: Grazie Elena, a presto!

Elena Bellantonio - Parole Passeggere 2015 performance installazione Stazione Ostiense in collaborazione con MAXXI

Elena Bellantoni – Parole Passeggere 2015 performance installazione Stazione Ostiense in collaborazione con MAXXI

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