Intervista con Angelo Mosca

"Il mio lavoro appartiene profondamente alla nostra storia, rivendico la mia identità di pittore italiano. Sono vicino, ad esempio all’esperienza chiarista, un ambito che è stato poco praticato e dimenticato."
26 Febbraio 2017

Fino al 10 marzo è in corso la mostra di Angelo Mosca 1994 / 1999 Genesi di una pittura, ospitata da Yellow Space (Varese). Per questa occasione, Simona Squadrito ha intervista l’artista.

Simona Squadrito:  Da poco hai inaugurato presso Yellow la tua mostra personale “Angelo Mosca 1994/1999. Genesi di una pittura”. Per quale motivo hai deciso di ripresentare al pubblico questo corpus di lavori?

Angelo Mosca: Questa mostra per me è molto importate, rappresenta l’invito all’apertura di un dibattito sull’arte, che ritengo manchi di questi tempi. Se non c’è dibattito non c’è arte. Mi sembra che in assenza di dibattito ogni cosa venga estrapolata dal contesto in modo casuale, sembra tutto un po’ arbitrario. Ho voluto sistematizzare il mio percorso per far comprendere un contesto specifico. Noto che si tende molto spesso a dare per scontate molte cose. Più che pensare al futuro, a mio avviso, bisogna riconsiderare il presente.

La mostra è nata anche dalla mia curiosità di voler fare rivedere, a distanza di venticinque anni, questi lavori. Parte di queste opere furono esposte alla mia prima mostra.  All’epoca non avevo mai esposto e quindi, come capita spesso agli artisti, ero un po’ in balia degli eventi. Ricordo che ricevetti una chiamata da Guido Carbone, un gallerista che esponeva pittura  e che si era dimostrato interessato ad esporre il mio lavoro. Ricordo che quando ricevetti la sua telefonata era dicembre, e il gallerista mi disse che la mostra sarebbe stata a gennaio. Avevo poco tempo.

Qualche giorno prima della mostra arrotolai questi grosse tele, feci un grande tubo e  trasportai tutto in treno. Lasciai le mie opere arrotolate in gallerie e andai al matrimonio di mia sorella. Il giorno dopo mi chiamò il gallerista dicendomi che la mostra sarebbe saltata, che non era in grado di montare quelle tele e che quei lavori non erano quelli che aveva selezionato: insomma, fu un vero disastro. Così tornai in galleria, montai le tele e feci una mostra che praticamente non piacque quasi a nessuno. All’epoca dei fatti, la mia pittura era un po’ fuori dalla corde di chiunque. A distanza di 25 anni, invece, le cose sono cambiate e posso tranquillamente dire che questi lavori, adesso, sono apprezzati.

S.S: Sì, assolutamente, inoltre ho trovato le opere esposte estremamente attuali. Riconosco che non riesco ad immaginarmi cosa abbiano potuto suscitare questi lavori negli anni ‘90.

A.M: La pittura italiana in quel periodo veniva fuori da un’esperienza di pittura materica, molto diversa dalla mia, non esistevano queste cose, non erano accettate. Ad un certo punto, in Italia, la pittura non è stata più considerata e guardata con attenzione, a differenza di quanto è accaduto e accade nel resto dell’Europa, dove c’erano e ci sono ancora pittori importanti. Quando mostravo i miei dipinti nessuno li comprendeva. Fu un’esperienza frustrante che però  mi ha formato. Ho avuto il coraggio di andare contro corrente e trovare la mia strada e dopo quella prima deludente esperienza lasciai l’Italia per Londra.

SS: Ti sei mai dato una risposta riguardo a questo “atteggiamento” italiano di cui spesso parli?

A.M: Il dibattito è tutt’ora aperto, io mi limito a una battuta: in Italia non si è mai preso nulla sul serio, questo atteggiamento lo si può notare anche nei confronti del contesto culturale dell’arte.
I pittori, comunque, ci sono sempre stati ma è come se fossero stati messi da parte, confinati a un ruolo decorativo.
Non so rispondere con sicurezza a questa domanda, posso immaginare e supporre che ha inciso molto quella stagione importante legata all’arte concettuale, così come all’arte povera. La pittura all’epoca aveva bisogno di essere rinnovata.

SS: Ma come giudichi e come mi spieghi, rispetto a quanto finora detto, lesperienza della Transavanguardia, non è anche questa pittura?

A.M: Io tendo a pensare alla Transavanguardia più come un movimento concettuale che come movimento pittorico. Tanto è vero che ha aperto e chiuso una parentesi. Non mi pare che ci sia stato un grosso seguito. Quel tipo di pittura è stato molto imitato e cercato, ma è stato più che altro un movimento concettuale che ha incontrato presto il mercato.
La pittura, l’arte in generale deve essere guardata da una prospettiva storica, e non mi pare che oggi ci siano artisti che hanno preso da quella lezione. La pittura ha preso strade completamente diverse. Un artista apre una stagione, non chiude mai, poi arrivano altri artisti che seguono e raccolgono quella lezione, reinterpretandola  e rielaborandola

S.S: Quindi secondo te questo atteggiamento nei confronti della pittura è da far risalire  allesperienza italiana dellarte concettuale? 

A.M: Sì. Ad un certo punto la pittura in Italia è passata come reazionaria, basti pensare che nelle accademie non si è più insegnato pittura.
L’arte povera che è chiaramente un movimento che trae origini da un certo credo politico, ha reagito molto violentemente a quella stagione pittorica che doveva essere rimessa in discussione. Infatti, l’ha fatto talmente bene che è quasi scomparsa.
Mi sembra che adesso ci sono giovani artisti che hanno ripreso a dipingere con una certa  concretezza e consapevolezza, mi pare, mi dicono. Si tratta un po’ di riprendere le fila del discorso.

S.S: Sono convinta che la pittura sia una parte importate della nostra identità nazionale, e forse ad un certo punto gli italiani hanno rinunciato ad essere italiani iniziando a  guardare altrove, c’è stato,  mio avviso una reazione oppositiva, una forma di disconoscimento della propria identità

A.M: Sì, il problema è stato anche questo qui. C’è stato un momento in cui si è professata una falsa ideologia identitaria, bisognava andare fuori, vedere che cosa succedeva altrove.
Ad esempio, c’è stato un atteggiamento nei confronti del mio lavoro che mi ha sempre infastidito: quando mostravo le mie cose, pochissimi capivano quanto la mia pittura fosse legata alla tradizione italiana, la pensavano più europea, era avvertita come una maniera nordica. Per me, invece, il mio lavoro appartiene profondamente alla nostra storia, io rivendico la mia identità di pittore italiano. Sono vicino, ad esempio all’esperienza chiarista, un ambito  che è stato poco praticato e dimenticato.

Angelo Mosca, Ho sudato sette camice (1999) tecnica mista su camicia

Angelo Mosca, Ho sudato sette camice (1999) tecnica mista su camicia

S.S: Torniamo ancora alla mostra presso Yellow, dove presenti una serie di opere che contengono delle evoluzioni avvenute nel tuo lavoro tra il 1994 e il 1999. Guardando le opere esposte è facile notare diverse strade e diverse sperimentazioni intraprese. Mi riferisco, ad esempio, ai dipinti fatti sulla superficie delle tue camice, oppure ai disegni su carta fotografica. Vuoi parlarmene? 

A.M: Questa mostra va letta almeno su tre diversi livelli. C’è il livello teorico, quello pittorico e quello legato alla sperimentazione su diversi materiali; quindi, un livello tecnico. Chiaramente ciò che viene mostrato è un riassunto estremo di sei, sette anni di lavoro, sono centinaia di lavori sintetizzati in una dozzina di quadri.
Ad esempio i lavori su carta fotografica, raccontano del mio interesse legato alla superficie, in questo caso ho voluto sperimentare come quel supporto prendesse la luce. La carta fotografica  prende la luce piuttosto  casualmente, creando un certo tipo di sfumature, di profondità e chiarezza. I lavori su carta fotografica presentati in mostra non hanno la pretesa di essere dell’opere, sono in realtà semplici passaggi che sarebbero potuti diventare motivo di approfondimento. Sono passaggi e sperimentazioni che mi hanno aiutato a trovare la tecnica giusta per esprime quell’immagine mentale che ogni  pittore ha nel suo profondo.
Anche il passaggio dalla pittura acrilica e quella ad olio è stato fondamentale. Ad un certo punto, mi sono reso conto che l’acrilico non rendeva più quel tipo di immagine che cercavo di creare, così ho sentito l’esigenza di approfondire una nuova tecnica, quella appunto della pittura olio. Da quel momento ho capito quanto fosse importante la preparazione della tela, il tipo di tela utilizzato. Insomma, ciò che è alla base della pittura. Ogni pittore cerca di dipingere continuamente un’immagine che ha dentro, e i momenti di  passaggio sono fondamentali perché aiutano a creare delle nuove immagini. Nella vita di un pittore si crea una nuova immagine che si tenta di dipingere, anche se non si sa bene come fare, per questo motivo è importante avere una buona tecnica. Il pittore ricerca un’immagine voluta e desiderata ma questo avviene nel tempo. La pittura  ha bisogno di tempo, e anche questo aspetto non è molto attuale.

SS: Vorrei parlare adesso della mostra “Pittura italiana… e altre storie minori” presentata circa due anni fa presso Casino dei Principi di Villa Torlonia. Tu e Michele Tocca siete stati gli ideatori e i curatori di un importate progetto che ha portato a dialogare artisti di “ieri” con artisti di “oggi”; è stato un contributo fondamentale soprattutto da un punto di vista storico, un appuntamento che ha dato la possibilità di riportare allattenzione del pubblico dei pittori ormai dimenticati, nel tentativo di fare una ricognizione storica della nostre radici pittoriche. 

A.M: Per me e per Michele Tocca questa mostra ha rappresentato un lavoro colossale, ci abbiamo lavorato per tre anni. Abbiamo coinvolto altri due pittori, Lorenza Boisi e Ivan Malerba, inoltre abbiamo prodotto un libro/catalogo, edito da Castevecchi. Anche il critico Alberto Mugnaini ci ha aiutati parecchio, intervenendo lui stesso con un testo in catalogo.
Il titolo della mostra è ovviamente ironico, parlare di Carlo Dalla Zorza, Carlo Levi, Roberto Melli, Fausto Pirandello, Pio Semeghini come artisti “minori” è da intendere in questo senso, perché nonostante non siano ricordatati dai molti rimangono artisti e intellettuali importanti. Tutto sembra diventato minore, per questo motivo abbiamo sentito l’esigenza di riparlare e di ripresentare questi artisti. Chi si interessa di pittura non può prescindere da questa storia, non può non fare i conti con l’esperienza Chiarista o con l’esperienza della Scuola Romana, queste rappresentano i capisaldi della nostra cultura.  Quello che abbiamo tentato di fare è ritessere una tela che ci sembrava un po’ sfibrata. Non conosco, infatti, tanti artisti che tengono presente questi discorsi, è un po’ lo stesso discorso che si avvia quando si parla della pittura degli anni ‘90. Bisogna riproporre continuamente all’attenzione questi fatti che apparentemente sono dimenticati.

Angelo Mosca Veduta Mostra 1994-1999 Genesi di una Pittura a Yellow - Foto di Roberto Caielli

Angelo Mosca Veduta Mostra 1994-1999 Genesi di una Pittura a Yellow – Foto di Roberto Caielli

SS: L8 aprile inaugurerai alla galleria Six di Milano una mostra dove verranno presentate insieme alle tue opere quelle di Fausto Pirandello. Qual è il motivo per cui hai scelto di confrontarti con questo pittore?

A.M: È stata un’idea di Sebastiano Dell’Arte. Insieme siamo andati alla Fondazione Pirandello, dopo mi ha fatto questa proposta che io naturalmente ho accettato. Questo progetto va inteso come il coronamento di tutto quel discorso e di quel percorso che ho avviato insieme a Michele Tocca. Riguardo alla scelta di accostare i miei dipinti con quelli di Pirandello, posso dire che il mondo di Pirandello fa parte del mio bagaglio, anche se, involontariamente e volontariamente, io mi sento più vicino ai chiaristi, ma in questo caso la cosa importate è quella di ricollegarsi alle proprie origini e radici, altrimenti qualsiasi discorso rimarrebbe campato per aria.
Il mondo è chiaramente cambiato, non esistono più queste scuole, per me è anche un discorso personale.
Ad un certo punto della mia storia artistica è stato fondamentale riconnettermi e ricollegarmi con quelle che considero le origini della nostra pittura e cultura. Sono esperienze che fanno parte di un immaginario che a sua volta è stato ripreso da qualcos’altro. Ogni artista vive questa  consequenzialità, non si inventa nulla dall’oggi al domani,  è  giusto riconoscere che ci sono  genitori.
Entrando nel merito della mostra io e il gallerista abbiamo selezionato cinque opere che raccontano un aspetto meno conosciuto della pittura di Pirandello, mentre io presenterò una decina opere  che attraversano l’arco di un decennio: dal 2002 al 2015.
Diciamo che con la mostra da Yellow  e con questa rimetto insieme la consequenzialità del mio lavoro.

S.S: Circa un anno fa hai lasciato Londra per trasferiti a Castel di Ieri, un piccolo borgo abruzzese, e da poco sei  il direttore di un piccolo museo locale. Vuoi parlare del tuo rientro e dei progetti che svilupperai al museo?

A.M:  Tutto è nato qualche anno fa. Avevo un’idea di mostra che parlasse dello svuotamento dei centri storici, volevo  fare un’azione politica e sociale. A me interessa avere un rapporto diretto con la politica, sono convinto che l’artista debba recuperare questo rapporto e intervenire in modo diretto. Dal mio punto di vista un artista  non può semplicemente pensare di rinchiudersi in studio. Io come artista ho sentito l’esigenza di svolgere un ruolo diverso, più diretto e di partecipare al processo decisionale. Il mondo ha bisogno degli artisti per controbilanciare il pensiero dominante. La visione dell’artista deve uscire fuori dal quadro.
La domanda iniziale che mi sono posto e che ho voluto porre ad alcuni artisti è la seguente: “Agli artisti interessa o non interessa che i centri storici vengono abbandonati?”.
Il centro storico è il nostro patrimonio artistico architettonico, ogni città italiana, ogni borgo conserva nel suo seno un importante patrimonio. Partendo da questa domanda ho organizzato una serie di conferenze intorno a questo argomento. Ho avuto la fortuna di capitare in una valle abbandonata e incantata e di fare amicizia con il sindaco del borgo,  insieme lui abbiamo iniziato a sviluppare il progetto. Abbiamo portato questo argomento  anche al Dipartimento di Architettura dell’Università di Pescara.
Dopo che il MAG, Museo di Arti Grafiche, è stato ristrutturato, il sindaco mi ha chiesto di dirigerlo. Adesso il MAG è uno spazio studio a disposizione di artisti che vogliono lavorare e esporre. La prima mostra che ho organizzato al museo, tutt’ora in corso, è “From London to Castel di Ieri”. Qui ho esposto la ricostruzione del mio studio di Londra. Quando ho preso la decisione di lasciare Londra e tornare in Italia, ho praticamente messo il mio studio in macchina e ho attraversato l’Europa con i miei quadri facendo diverse tappe, fino a raggiungere Castel di Ieri.
Prossimamente, per l’esattezza a maggio, insieme a Vera Portatadino e a Marco Salvetti svilupperemo un laboratorio artistico per i bambini della valle. I progetti che ho sono molto ambiziosi, vorrei insieme alla politica e agli artisti riorganizzare il tessuto economico di questi luoghi e non soltanto quello socio-culturale.

S.S: Vorrei concludere questintervista facendoti la seguente domanda: se  dovessi comprare  adesso un quadro di un giovane pittore italiano chi sceglieresti?

A.M:  Comprerei un quadro di Michele Tocca. Forse questo non bisogna dirlo, mi sembra il modo migliore per ledere e bruciare un artista. Viviamo una realtà assurda, ogni tanto si tira fuori un genio dalla lampada… il grande pittore… il  grande artista e forse questo gli fa solo del male.  Io ho due quadri in camera mia, uno è di Michele Tocca e l’altro è di Elia Gobbi.

Angelo Mosca, Supermercato

Angelo Mosca, Supermercato

Angelo Mosca, Scomposizione di un quadro, olio su tela, 1997

Angelo Mosca, Scomposizione di un quadro, olio su tela, 1997

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