ATP DIARY

Singular time, unique space | Intervista a Ludovica Carbotta | FSRR, Torino

In occasione di Monowe, la personale di Ludovica Carbotta in Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (fino al 6 Ottobre 2019), e della sua partecipazione all’ormai vicinissima 58a edizione della Biennale di Venezia, Mariacarla Molè le ho posto qualche domande sull’evoluzione del...

Ludovica Carbotta, Manowe – Installation view alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino – Foto di Giorgio Perottino

In occasione di Monowe, la personale di Ludovica Carbotta in Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (fino al 6 Ottobre 2019), e della sua partecipazione all’ormai vicinissima 58a edizione della Biennale di Venezia, Mariacarla Molè le ho posto qualche domande sull’evoluzione del suo progetto, iniziato nel 2016 e ancora in progress, quello di una città ideale, Monowe, con una struttura urbanistica pensata per un singolo abitante.

Mariacarla Molè: Partirei dalla parola Monowe, il prefisso mono modifica il we, che evoca una dimensione comunitaria, negandola quindi. Non sembra però seguirne una celebrazione dell’individualismo quanto piuttosto un tentativo di “accogliere una miriade di divenire minori” (Peter Pàl Pelbart, che so è stato uno dei riferimenti nell’ideazione di questo lavoro).
Qual è il significato dell’isolamento della città e della solitudine dell’unica persona che potrebbe abitarla? Che processi si innescano in questa condizione singolare?

Ludovica Carbotta: Il progetto è nato da una riflessione sull’autoisolamento, in particolare quello che viviamo nelle città contemporanee, e Monowe è un commento a quella che mi sembra essere una condizione attuale: un individualismo dilagante. Ho optato per la narrazione di una situazione assolutamente estrema e paradossale, quella di una città abitata da una sola persona, per parlare della condizione psicologica dell’isolamento come se si fosse materializzata in un intero ambiente cittadino.
Andando avanti con il progetto è venuto fuori anche un aspetto più positivo della condizione di solitudine, quello di avere la capacità enorme di riformulare norme e regole sociali, raramente messe in discussione. Le strutture, le infrastrutture e le istituzioni che ricreo nella mia città fittizia sono il tentativo di metterne in dubbio l’autorità indiscussa.
Il pensiero di Pelbart è stato un riferimento specie per la sua concezione di solitudine legata alla possibilità intrinseca di riappropriarsi di un tempo che sia più legato all’individualità, alla singola persona. Mi riferisco a qualcosa di molto simile all’approccio alla performance del collettivo teatrale Ueinzz, fondato da Pelbart, scevro da ogni forma di gerarchia di ruoli e figure, e non dipendente da alcuno schema fisso di azione nella produzione degli spettacoli. La loro pratica e l’intera ideazione dei progetti teatrali sono assolutamente liberi e tengono conto dei tempi e delle esigenze dei singoli individui. Quello che trovo interessante è la volontà di ripartire dall’uno, e dalle sue tempistiche.

Ludovica Carbotta, Manowe – Installation view alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino – Foto di Giorgio Perottino

MM: La città di Monowe è per certi versi molto riconoscibile, è composta di strutture architettoniche prototipiche che informano un ambiente fattivo ed effettivo. Hai costruito un inganno verissimo. Qual è il tuo approccio al fictioning? Come te ne servi?

LC: La configurazione della città di Monowe in realtà riflette quella di una città reale, e tutti i suoi capitoli sono stati sviluppati come reinterpretazioni di architetture legate alle città in cui hanno avuto luogo, ma che in qualche maniera non erano presenti perché mai realizzate o andate distrutte. Si tratta quindi di una finzione che si intreccia col site specific, di una finzione che è solo una leggera variazione del reale, perché se ne nutre. In tanti miei lavori, anche precedenti, la componente immaginativa assume un ruolo attivo rispetto al lavoro scultoreo, e non solo ausiliario, si fonde ad esso diventando parte del processo artistico, pur non restando sempre visibile e manifesta.

MM: È un progetto che ha avuto diverse declinazioni, e ha preso forma in spazi e con mezzi assai diversi tra loro. Che forma prenderà in questa tappa torinese? È da considerarsi conclusiva?

LC: Non credo sia da considerarsi conclusiva, di sicuro avrà degli sviluppi ulteriori, questo è piuttosto il tentativo di riassumere quello che è stato finora, di presentare per la prima volta i diversi capitoli di Monowe, che non è nata come progetto unitario ma si è composta frammento dopo frammento. In Fondazione Sandretto ne verrà presentato uno nuovo, il tribunale, la parte più performativa che verrà ulteriormente sviluppata nei prossimi mesi, con un lavoro propedeutico di scrittura. La conclusione, almeno per come la immagino adesso, sarà legata a questa parte performativa, che potrebbe essere il processo dell’atto conclusivo.
Intanto in occasione della mia partecipazione May You Live in Interesting Times, sarò a breve a Venezia, con due nuovi capitoli di Monowe, un’installazione esterna in Arsenale e una a Forte Marghera, poi si vedrà.

Ludovica Carbotta, Manowe – Installation view alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino – Foto di Giorgio Perottino

MM: Percepisco un’amara ironia sottesa alla ‘insincerità’ di luoghi e strutture che tradiscono le loro funzioni originarie. Ponti monchi, torrette di sorveglianza e nessuno da sorvegliare, tribunali con nessuno da giudicare…
È questa la società che ci siamo costruiti intorno? Siamo finiti soli all’interno di una struttura di cui siamo stati fatti prigionieri già nell’atto stesso di costruirla?

LC: Si, la torretta abbandonata dove non c’è niente da sorvegliare, è una forma di paradosso, il risultato di una forma di accelerazione della contemporaneità, una visione se vuoi distopica e inquietante. Siamo ossessionati dalla sicurezza al punto di rimanere da soli, talmente preoccupati di difenderci da restare senza pericoli. Immaginare una città come Monowe è un progetto utopico con dei risvolti per certi versi tragici.  Ma gli esiti sono molteplici, e non mancano spunti positivi, specie dal punto di vista della psicologia del singolo, a cui accennavo prima. 

MM: Quale potrebbe essere il profilo ideale dell’abitante di Monowe? Sembra l’erede del maschio bianco razionalista urbano europeo consumista, che ha dato via il proprio corpo politico in cambio di nulla. Ci sono andata vicina?

LC: Wow, in realtà finora sono sempre donne a interpretare l’abitante, donne dall’aspetto androgino anche se il genere non si evince così chiaramente dalla narrazione.

Le installazioni architettoniche di Monowe sono state realizzate in collaborazione con il collettivo di architetti Orizzontale.

Ludovica Carbotta, Manowe – Installation view alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino – Foto di Giorgio Perottino