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IMPRONTE, intervista agli artisti, atto II | Raccolta Lercaro

Continuano le interviste agli artisti della residenza di Raccolta Lercaro che, grazie alla vicinanza con il Nuovo Forno del Pane (MAMbo-Museo d’Arte Moderna di Bologna), dà vita al progetto IMPRONTE – a cura di Laura Rositani, Claudio Musso, Francesca Passerini...

Continuano le interviste agli artisti della residenza di Raccolta Lercaro che, grazie alla vicinanza con il Nuovo Forno del Pane (MAMbo-Museo d’Arte Moderna di Bologna), dà vita al progetto IMPRONTE – a cura di Laura Rositani, Claudio Musso, Francesca Passerini e Andrea Dall’Asta – in cui alcuni spazi espositivi della Raccolta diventano atelier per giovani artisti selezionati. Il lasciare una traccia, un’impronta del proprio passaggio, è il punto di partenza su cui la ricerca degli artisti si struttura. L’arte, infatti, nei momenti di crisi è in grado di captare quelle che sono le urgenze e le fragilità dell’essere umano. La residenza, attraverso il confronto tra i partecipanti, favorisce una riflessione sull’uomo, sulle relazioni e sulla necessità di una crescita umana e spirituale. Matteo Messori, Caterina Morigi e gli artisti di IMPRONTE extraDAMP e Raffaele Vitto – hanno risposto ad alcune domande sul progetto IMPRONTE e sulla loro ricerca. 

Il collettivo DAMP – Alessandro Armento, Luisa de Donato, Viviana Marchiò e Adriano Ponte – nasce come spazio di incontro e dialogo di sperimentazioni e ricerche indipendenti, realizzate da ciascun componente. Una ricerca multimediale che sviluppa, in forme e tempi diversi, tematiche complesse quali l’incontro tra l’individuo e la collettività, l’altrove e l’autorialità. 

DAMP, “Tapis roulant”, 2020
DAMP, “Apolide”, 2020

Veronica Pillon: Il progetto della Fondazione Lercaro si intitola “Impronte”: che significato ha per te il concetto di “Impronta” e conseguentemente il lasciare una traccia o un segno attraverso la tua pratica artistica e i tuoi lavori? 

DAMP: Quello dell’impronta è un concetto affascinante, in quanto assenza e presenza convivono, passato e futuro si sovrappongono. È la traccia di una sparizione: quasi una contraddizione in termini. Ci piacerebbe che anche il nostro operare si ponesse tra l’esserci e il non esserci.

VP: Durante il periodo di residenza, gli spazi espositivi della Fondazione Lercaro si sono trasformati in atelier: a cosa hai lavorato/stai lavorando?

DAMP: A noi è stato chiesto di immaginare un intervento site-specific per uno dei terrazzi della Fondazione, un prolungamento della struttura di cui ci ha colpito l’atipico slancio verticale, che ci ha spint* a osservare il cielo prima e, di riflesso, la pavimentazione, su cui si disegna una griglia, un pattern di limiti. In quest’ultima parola abbiamo trovato un possibile tragitto.

VP: Se dovessi descrivere in una parola (aggettivo o sostantivo) la tua ricerca, quale sceglieresti e perché?

DAMP: Una parola giapponese intraducibile in italiano, che non sappiamo se ci descrive o se ci piacerebbe ci descrivesse: wabi-sabi. È un principio dell’estetica giapponese che si basa sull’idea che nulla sia perfetto (nel senso che accetta l’asimmetria come parte integrante della realtà), che nulla sia finito (perché tutto fluisce) e che nulla duri. Queste sono le premesse concettuali da cui partono i nostri dialoghi.
L’Antiforma è in costante mutamento, frutto dei contesti e delle relazioni che l’artista Matteo Messori intreccia. L’Antiforma si manifesta nell’unione tra il linguaggio pittorico e scultoreo: il risultato di quest’unione sono delle installazioni, frutto, non soltanto dei linguaggi scelti, ma anche dei materiali utilizzati. 

Matteo Messori, “Formastante ( Status )”, intonaco blu su tufo, 150 x 45 x 35 cm, 2020
Matteo Messori, “Antiforma”, acrilico, intonaco, gesso e vinavil su garze mediche. 400 x 200 cm, 2020
Matteo Messori, “Formastante ( Status )”, Acrilico e intonaco su tegole, 130 x 50 x 20, 2020

Veronica Pillon: Il progetto della Fondazione Lercaro si intitola “Impronte”: che significato ha per te il concetto di “Impronta” e conseguentemente il lasciare una traccia o un segno attraverso la tua pratica artistica e i tuoi lavori?

Matteo Messori: In sé la parola “Impronta” significa testimonianza di un passaggio – uomo o animale che sia – che determina il segno di un movimento dato da un essere vivente. Per me, vuol dire lasciare un ricordo permanente e fisico in un determinato spazio mentale. Così come cerco di fare io tramite la mia ricerca artistica che guarda in maniera empatica all’uomo e alle sue mutazioni, date dagli spazi o dai periodi in cui essi vivono. 

VP: Durante il periodo di residenza, gli spazi espositivi della Fondazione Lercaro si sono trasformati in atelier: a cosa hai lavorato/stai lavorando?

MM: Al momento sto lavorando a una serie di opere in Denim, ispirate da un periodo di residenza nella Valle della Luna, luogo famoso per i suoi paesaggi lunari formati da montagne in granito, scolpite dal mare e dal vento, e punto di riferimento per una comunità hippy che ha scelto di insediarsi in quella valle intorno agli anni Sessanta. Da questa esperienza ho raccolto sensazioni e visioni, che sto riportando su queste tele in denim.

VP: Se dovessi descrivere in una parola (aggettivo o sostantivo) la tua ricerca, quale sceglieresti e perché?

MM: Direi che la parola esatta sia “istintiva”, come un livido caldo che agisce di pari passo con gli urti e le emozioni che catalizza. Attraverso quelle che sono le esperienze che vivo come artista all’interno dei paesaggi, mentali e fisici, che mi circondano. 

Caterina Morigi, “Honesty of matter”, Torino, 2019, Installation view Mucho Mas! Artist-run space. Ph. Mucho Mas! Silvia Mangosio e Luca Vianello
Caterina Morigi, “Honesty of matter (Venere che si allaccia un sandalo)”, Torino, 2019, Dettaglio , Artist-run space. Ph. Mucho Mas! Silvia Mangosio e Luca Vianello

Caterina Morigi si concentra sui mutamenti della materia, che viene lasciata libera di cambiare e di rivelare l’inaspettato. Il tempo e lo spazio influenzano i suoi lavori, agendo come flussi carsici nella manipolazione e nella trasformazione della materia stessa. 

Veronica Pillon: Il progetto della Fondazione Lercaro si intitola “Impronte”: che significato ha per te il concetto di “Impronta” e conseguentemente il lasciare una traccia o un segno attraverso la tua pratica artistica e i tuoi lavori?

Caterina Morigi: Ho inizialmente interpretato l’impronta come una traccia lasciata sulla materia, una trama eloquente, superficiale ma complessa, tutt’altro che silente, capace di raccontare storie tattili che si sovrappongono, confondendosi tra antico e contemporaneo. Con il percorso di residenza ho però potuto riflettere su piani più profondi, anche spirituali. Ho pensato di voler trattare un tema di attualità, che senza dubbio lascerà una traccia su tutti noi, ed ho deciso di iniziare a parlarne subito e in maniera diretta. 

VP: Durante il periodo di residenza, gli spazi espositivi della Fondazione Lercaro si sono trasformati in atelier: a cosa hai lavorato/stai lavorando?

CM: Sto lavorando con disinfettanti su carta. Non c’è pigmento. Sperimentando questi materiali – ormai a noi così comuni – ho scoperto che nell’unirli tra loro, ad esempio due sostanze trasparenti, si creano reazioni chimiche e cromatiche incredibili. Mescolo antisettici per le superfici, per la pelle, per le ferite, liquidi e gel; con questi realizzo opere al limite della riconoscibilità delle forme. Tra controllato e libero, tra figurativo e astratto, i disegni hanno quasi le sembianze di nuove forme di vita.

VP: Se dovessi descrivere in una parola (aggettivo o sostantivo) la tua ricerca, quale sceglieresti e perché?

CM: Scelgo una parola concreta, ad oggi davvero significativa per la mia ricerca: ‘marmo’, o anche ‘pietra’, perché su di essa si accumulano le tracce del tempo e vi restano impresse a lungo, come sulla pelle. Contemporaneamente è l’elemento che nella mia poetica rappresenta la natura, come mondo minerale in sintonia con quello vegetale e animale, e in cui ritrovo somiglianze con l’essere umano, sia a livello visivo, nelle venature e nelle macchie del marmo, che nella composizione minerale delle nostre ossa, ovvero ciò che ci sopravvive più a lungo.  La terra, l’elemento agreste e la natura definiscono la ricerca artistica di Raffaele Vitto. Le sue sculture non sono il frutto dello scalpello ma della zappa, che traccia e compatta la terra: attraverso la manipolazione della materia rende visibile ciò che è invisibile, frutto dello scorrere del tempo e delle stagioni. 

Raffaele Vitto, “Movimento terra”, terra su terra, 80 mq, 2018
Raffaele Vitto, “400 passi di terra”, terra e paglia, 25 mq, 2019

Veronica Pillon: Il progetto della Fondazione Lercaro si intitola “Impronte”: che significato ha per te il concetto di “Impronta” e conseguentemente il lasciare una traccia o un segno attraverso la tua pratica artistica e i tuoi lavori?

Raffaele Vitto: Penso che lasciare traccia di un pensiero, una sensazione o un dubbio per un artista sia la cosa più importante, significa che il lavoro ha colpito o semplicemente “funzionato”. Ogni opera deve invitare il fruitore a una riflessione: anche se fosse solo per una singola persona, è importante che qualcosa avvenga. Per me “Impronte” significa appunto questo, lasciare che l’opera stimoli la riflessione di chi ne fruisce.  

VP: Durante il periodo di residenza, gli spazi espositivi della Fondazione Lercaro si sono trasformati in atelier: a cosa hai lavorato/stai lavorando?

RV: Sto lavorando su quanto sia importante – oggi in particolare – avere il “pane quotidiano” e lo sto facendo attraverso dei calchi di diversi pani, ma non voglio aggiungere altro sull’opera. Ci terrei solo a specificare che trattandosi di un lavoro site-specific da collocare all’interno del cortile della Fondazione Lercaro, sono curioso di vedere come il tempo, gli agenti atmosferici e tutti i processi naturali interverranno sull’opera.

VP: Se dovessi descrivere in una parola (aggettivo o sostantivo) la tua ricerca, quale sceglieresti e perché?

RV: Io penso che ci siano due parole che possano descrivere la mia ricerca, umile e autentico. Umile perché i miei lavori sono realizzati da materia e materiali poveri, in particolare la terra. Inoltre, la modalità di lavoro non è molto diversa dal mio lavoro nei campi come contadino, anch’esso umile. Autentico perché, se non fossi andato in campagna sin da piccolo, non potrei esistere oggi come artista: come tale, non posso far altro che riflettere sul ”mondo che conosco meglio”.