Il Latte Dei Sogni: l’arte come specchio della complessità del mondo

213 artiste e artisti provenienti da 58 nazioni, 1433 le opere e gli oggetti esposti, 80 le nuove produzioni. L’edizione curata da Cecilia Alemani rispecchia le tante storie che raccontano la complessità del reale e le sue trasformazioni.
30 Aprile 2022
Andra Ursuta – Rosemarie Trockel – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams – Foto Marco Cappelletti – Courtesy: La Biennale di Venezia
Capsula 1 – La Culla della Strega / The Witch’s Cradl – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams © photo Ela Bialkowska OKNO studio – Courtesy: La Biennale di Venezia
Miriam Cahn unser süden sommer 2021, 5.8.2021, 2021 Room installation composed of 28 paintings and works on paper – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams – Foto Marco Cappelletti – Courtesy: La Biennale di Venezia

Ne leggeremo di cotte e di crude, condivideremo alcuni pensieri, detesteremo alcuni punti di vista, apprezzeremo chi descrive in modo puntiglioso le proprie ragioni, loderemo chi, con grande capacità di sintesi, chiarisce il proprio punto di vista. Ogni paio d’anni – ad eccezione di quest’anno, per i motivi che sappiamo tutti – si rinnova la prassi di esercitare la capacità di analisi della Biennale di Venezia, cercando di evitare critiche generiche e approssimative, per sostanziare invece l’esegesi di turno. Un po’ per timore di avere tutti contro, un po’ perchè ad osannare non si fa mai male a nessuno, anche quest’anno, dopo poche giornate dedicate alla presentazione della Biennale di Venezia capitanata da Cecilia Alemani, sono iniziati a scorrere fiumi di parole che lodano la scelta degli artisti, apprezzano l’ “alta dose  di buona pittura”, la scelta di opere che danno un certo ritmo, il buon equilibro tra scultura e opere a parete ecc. 
Ma al di là di questi aspetti che sicuramente non sono dettagli, direi che secondo il mio punto di vista la “sostanza” di una Biennale si misura su poche e basilari questioni: quanto lascerà il segno questa edizione? Quanto si discosta dalle edizioni precedenti? Quanto la Alemani ha allargato le maglie di un formato che si vuole sempre nuovo ma abbia anche nessi con la tradizione? 

Innanzitutto Alemani ha sempre chiarito come ha gestito, fin dalla sua nomina come direttrice, la curatela della mostra: è rimasta inchiodata per quasi due anni davanti al suo computer. Non ha potuto né incontrare gli artisti vis a vis né tanto meno visitare i loro studi per vedere le opere (tanta parte le ha viste per la prima volta a Venezia). Senza precedenti, è la prima direttrice ad aver messo in piedi una Biennale via Zoom e via e-mail, tra centinaia di portfolio visionati, consultati, passaparola tra artisti, curatori e direttori di museo. Non potendo viaggiare, che ha fatto? 
Ha studiato, ragionato, parlato forse in modo incessante con centinaia di artisti, capendo e captando problematiche, umori e malumori. Insomma, ha dato il via ad un modo, sicuramente diverso, di gestire e curare un grande appuntamento espositivo come una Biennale. 
C’è stata la sciagurata pandemia che ci ha cambiato più o meno tutti – o meglio – ci ha lasciato sicuramente un segno. Vien da chiedersi: ma come ci è riuscita? Come è riuscita ad organizzare un progetto curatoriale così importante restandosene sempre davanti ad un computer? 
La risposta, nel bene o nel male è, chiaramente, ne Il latte dei Sogni: una mostra che per complessità, struttura e, non ultima, libertà si presenta come una “super mostra” che racchiude tante mostre, tanti temi, si muove in tante culture, continenti, generazioni, stili. Cardine e filo rosso che lega le tantissime opere in mostra (oltre 1400!) è il concetto di metamorfosi e trasformazione del corpo come simbolo e metafora di tanti cambiamenti.

Meritevole è stata, a mio parere, l’abilità di Alemani di strutturare una mostra organizzata per sezioni che hanno la capacità di mettere in relazione l’oggi con il passato, ma non solo, anche di minare il concetto stesso di ‘progresso’ dell’opera d’arte. I dialoghi che si sono creati tra la mostra principale e quelle che la stessa direttrice ha chiamato ‘capsule’, è stata la chiave di volta di questa Biennale. Tra il Padiglione Centrale, l’Arsenale e le Corderie, Alemani ha pensato a cinque ‘piccole’ mostre tematiche a carattere storico che hanno creato dei luoghi di confronto e dialogo con un approccio, come spiega lei stessa, “trans- storico e trasversale che traccia somiglianze ed eredità tra metodologie e pratiche artistiche simili, anche a distanza di generazioni”. 
Ecco allora che alcune debolezze e scelte un po’ gratuite nel Padiglione Centrale, sono giustificate dalla presenza di quello che è il punto di forza dell’intera mostra, la capsula La Culla della Strega dove si incontrano le significative esperienze di artiste, danzatrici, scrittrici e intellettuali che minano, con le loro idee prima che con le loro opere, il mito cartesiano unitario – e de facto maschile – respingendo con decisione l’idea dell’Uomo come centro del mondo e misura di tutte le cose. Non essendo particolarmente interessata all’arte femminile tout court, ho apprezzato questo mettere in discussione la visione patriarcale e maschile dell’arte. Non mi preoccupa dunque che l’80% degli artisti in mostra siano donne, mi interessa solo la visione che restituiscono di certi temi, come affrontano certi argomenti. Di fatto, a tutti coloro che hanno evidenziato questo aspetto,  Alemani ha sempre risposto che se fosse stato il contrario, ossia se il direttore fosse stato un uomo e avesse scelto 80% di artisti uomini, nessuno avrebbe mosso alcuna osservazione in merito.. dunque… 

Louise Lawler No Exit, 2022 Installation view – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams – Foto Marco Cappelletti – Courtesy: La Biennale di Venezia
Aneta Grzeszykowska, June Crespo – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams – Foto Marco Cappelletti – Courtesy: La Biennale di Venezia
Hannah Levy – Kaari Upson – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams – Foto Marco Cappelletti – Courtesy: La Biennale di Venezia

Ma torniamo al fulcro della Biennale, la mostra nella mostra dove, allestite con una “precisa coreografia architettonica” – pensata magistralmente dai FormaFantasma – trovano spazio manichini, automi, bambole e marionette, maschere e abiti, accanto a bellissimi disegni, fotografie, sculture, quadri e illustrazioni che danno del genere umano una visione che solo banalmente potremmo etichettare femminile. Meglio considerarle opere pionieristiche, imprevedibili, fantastiche – quale altro aggettivo utilizzare davanti ai bellissimi dipinti di  Dorothea Tanning, Leonora Carrington, Leonor Fini e Ramedios Varo? – che hanno dato del corpo non solo una visione più profonda e simbolicamente più ampia, ma che ne hanno fatto  uno strumento politico, erotico e poetico. Ovviamente, accertare che il punto di forza del Padiglione Centrale è la capsula, è ridurre un po’ tutto il resto. In realtà, la struttura stessa del padiglione, fatta con piccole sale che si susseguono con aperture e chiusure, induce a creare una certa confusione. 

Letteralmente apre la mostra l’opera di Katharina Frisch – un elefante in scala 1:1 – segue la grande sala con le opere di Andra Ursuta e Rosmerie Trockel. Aprendo di fatto la mostra con tre artiste così significative e la cui opera è non solo stata importantissima – penso alla Trockel – ma anche molto conosciuta, speravo che la stessa intensità e chiarezza fosse mantenuta anche nelle altre sale. Invece, sin da subito, la sensazione è stata quella di trovarsi in un susseguirsi di opere, spesso di grandi dimensioni che lasciavano non solo poco respiro ma che ingarbugliavano il dialogo stesso tra i diversi artisti.
Un’infilata serratissima di opere e artisti si accavallano, spesso senza darci la possibilità di una pausa riflessiva… la sensazione è quella di tanto di tutto e di più. Tant’è che, giunti alla fine del Padiglione Centrale, non si può non apprezzare e lodare la sala che ci permette finalmente di sostare in tranquillità davanti alla grande installazione di Louise Lawler e al susseguirsi delle performance di Alexandra Pirici. Nella grande sala, siamo abbracciati dall’installazione No Exit (2022) dell’artista statunitense, composta da una gigantografia fotografica – si scorge un manto peloso, forse delle zampe, un orecchio – che accoglie le fotografie della retrospettiva di Donald Judd al MoMA nel 2022; al centro, dei performer eseguono la nuova azione performativa di Pirici, Encyclopedia of Relations (2022).
Di sale molto intense se ne possono citare tante, da quella di Paula Rego a quella bellissima di Mirian Cahn, dal dialogo surreale tra le membrane scultoree di Hannah Levy, con i ritratti materici di Kaari Upson, le toccanti visioni di Aneta Grzeszykowska con i corpi smembrati di June Crespo (peccato per il pochissimo spazio dato a queste sculture che, tra la loro quantità e l’affollamento dei visitatori, era praticamente impossibile apprezzarle in pieno), il poetico e coinvolgente video di Nan Goldin Sirens (2019-20) e, apprezzatissima, la collocazione delle sculture di Simone Fattal nel Giardino delle Sculture di Carlo Scarpa.
Accanto a queste relazioni fortunate e fruttuose, ce ne sono altre che non sono ugualmente riuscite come quella tra la bravissima e inquietante danese Ovartaci e i quadri iper-realistici (ma un po’ di maniera) di Chiara Enzo, o la caotica sala dove sono installati i lavori di Sara Enrico, Sonia Delaunay, Vera Molnar, Jacquelin Humphries e Carla Accardi. 
Come in La Culla della Strega, anche nella capsula Corpo Orbita, l’organicità dell’esposizione trova un perfetto equilibrio. Questa capsula mette in scena la relazione tra corpo e linguaggio, traendo ispirazione dalla mostra “Materializzazione del linguaggio”, parte della Biennale del 1978, curata dall’artista Mirella Bentivoglio. Vengono qui esplorate le forme espanse del linguaggio attraverso opere di artiste, scrittori e scrittrici e perfino medium. In mostra compaiono opere di Mary Ellen Solt, Tomaso Binga, Unica Zűrn e Minnie Evans, così come la documentazione fotografica delle sedute delle medium Eusapia Palladino e Linda Gazzera.

Simone Leigh Belkis Ayon – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Foto Roberto Morossi – Courtesy La Biennale di Venezia
Delcy Morelos Earthly Paradise, 2022 Site-specific installation Mixed media: soil, clay, cinnamon, powder cloves, cocoa powder, cassava starch, tobacco, copaiba, baking soda and powdered charcoal – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams – Foto Roberto Morossi – Courtesy: La Biennale di Venezia
Capsula – Una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore / A Leaf a Gourd a Shell a Net a Bag a Sling a Sack a Bottle a Pot a Box a Container – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

Scelta azzeccata – l’artista ha vinto il Leone d’Oro – quella di installare la grande sculture di Simone Leigh all’entrata dell’Arsenale: Brick House (2019), il monumentale busto in bronzo di una donna nera in dialogo con i disegni dell’artista cubana Belkis Ayòn. 

Più che nel Padiglione Centrale, all’Arsenale Alemani si concede di dare spazio a opere di grande respiro, come l’appena citata opera della Leigh, le sculture- forno di Gabriel Chaile, la coinvolgente ed efficace installazione ambientale di Delcy Marelos, Earthly Paradise (un percorso composto da un ammasso di terra, fieno, farina di manioca, polvere di cacao, chiodi di garofano e cannella), la scultura sospesa di Aage Gaup, i mascheroni di pelle riciclata di Tau Lewis; le grandi chele di Teresa Solar, la processione di giraffe che trainano un grosso pene di Raphaela Vogel; l’ambientazione molto suggestiva di Kapwani Kiwanga che ci immerge in un grande tendaggio dai colori del tramonto; le sculture sanguinolente di Mira Lee e l’immersione nell’ambiente a luce verde di Sandra Mujinga che espone  sculture di grandi arti e proboscidi decadenti. Chiude lo spazio delle Corderie l’ampio ambiente di Barbara Kruger – un po’ come ‘chiudere in bellezza’! – che ci investe con frasi perentorie come “per favore ridi” “per favore piangi” “In the middle there was confusion” “in the Beginning there was crying”…
Tra queste grandi opere, un potpourri di lavori estremamente eterogenei, quadri enormi, piccoli disegni, tappeti e tele ricoperti di perle e perline, vasi, video, ecc. Non vi nascondo che spesso il discorso e la concentrazione si perdeva nella quantità di stimolazioni. 
Meritevole di tutta la nostra attenzione la prima capsula dell’Arsenale – Una foglia, una zucca, un guscio, una rete, una borsa, una tracolla, una bisaccia, una bottiglia, una pentola, una scatola, un contenitore–  quella dedicata ai ‘contenitori’ in senso simbolico e metaforico. Dalle grandi narrazioni di eroi in battaglia nella notte dei tempi, si passa alle narrazioni più umili, legate alla cura e alla raccolta: reti, borse, gusci, ciotole e scatole. In questa interessantissima capsula  troviamo i carapaci ovoidali dell’artista surrealista Bridget Tichenor  accostati alle delicate ceramiche di Maria Bartuszov, alle delicatissime sculture sospese di Ruth Asawa e alle creature ibride di Tecla Tofano. 
Affascinanti anche i temi trattati nella capsula La seduzione di un cyborg (titolo tratto dall’opera di Lynn Hershmann Leeson) che propone artiste che hanno immaginato nuove combinazioni tra l’umano e l’artificiale, creando gli avatar di un futuro postumano e postgender. La sezione attinge da Dada, Bauhaus e futurismo ed espone Marianne Brandt, Marie Vassilieff, Anna Coleman Ladd (impressionanti le sue maschere facciali per i reduci della prima guerra mondiale), Aleksandra Ekster, Regina Cassolo Bracchi, Florence Henri, Hannah Höch, tra le altre. 
L’umore della mostra cambia quasi all’improvviso, immersi nelle atmosfere più fredde e futuribili con le opere degli artisti contemporanei  Jes Fan, Mire Lee Luyang, Marguerite Humeau, Elisa Giardina Papa, Tishan Hsu, Geumhyng Jeong. Di questa sezione, all’apparenza un po’ slegata dal resto, la parte più sostanziosa e interessante è senza dubbio quella di taglio storico. Le opere contemporanee, o sanno di già visto o, come spesso accade a tutto ciò che è futuristico, diventano lo specchio del presente con i suoi tic e paure. 

Ricca di stimoli, relazioni e rivelazioni, studiata nel dettaglio e intessuta di continui rimandi tra vecchie e nuove generazioni, attentissima al politicamente corretto (forse troppo?), alle tematiche contemporanee legate all’in-distinzione tra i generi, all’ecologia (senza cadere nelle ovvietà), all’apertura verso una nuova sensibilità e ottica femminile (senza cadere nel femminismo démodé); propensa alla diversità e inclusività – parole che in questa Biennale non suonano pura retorica -, generosa nell’abbracciare culture diverse, attenta a non cadere nei ‘luoghi comuni’ delle quote da rispettare, a tratti imprevedibile… coraggiosa nell’escludere l’ondata (entusiastica) degli NFT, questa Biennale è quello che ci meritiamo in questo momento. Dopo il difficile periodo che abbiamo attraversato, l’ottimismo, da sempre manifestato dalla Alemani, si ripercuote in un’edizione che ha messo vicini artisti stilisticamente e per formazione abissalmente lontani, ha trattato temi che fanno riflettere e che, si spera, allarghino le nostre vedute, ha messo – finalmente – al centro la sensibilità femminile da troppo tempo relegata in secondo piano. Insomma, ci ricorderemo de Il Latte dei Sogni come di una Biennale senza opere ‘fallocentriche’ e muscolari, senza grandi eroi e protagonisti(mi), ma con tantissime storie trasversali che andavano raccontate.

Kapwani Kiwanga, Sunset Horizon (phase I), 2022 – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Foto Roberto Morossi – Courtesy: La Biennale di Venezia
Joanna Piotrowska – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams – Foto Roberto Morossi
Louise Bonnet Pisser Triptych, 2021–2022 Oil on linen Overall dimensions variable – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams – Foto Roberto Marossi – Courtesy: La Biennale di Venezia
Barbara Kruger Untitled (Beginning/Middle/End), 2022 Site-specific installation, print on vinyl – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams – Foto Roberto Morossi – Courtesy: La Biennale di Venezia
Theme developed by TouchSize - Premium WordPress Themes and Websites