Le “ipotesi” spaziali di Philippe Parreno

Ha inaugurato all'Hangar Bicocca la prima grande antologica in Italia dell'artista francese. Un unico grande dispositivo temporale scandito da suoni, luci e immagini in movimento.
21 Ottobre 2015

Ieri Martedì 20 Ottobre è stata presentata negli spazi dell’ Hangar Bicocca la prima mostra antologica italiana dell’artista francese Philippe Parreno, curata da Andrea Lissoni, giunto con questo progetto al suo ultimo impegno all’Hangar (è da oltre un anno che il curatore vive e lavora a Londra). Già dal titolo, “Hypothesis”, la mostra rivela la sua essenza: essere partecipata, vissuta, esperita come un continuo – e fuggevole – moto di eventi; il visitatore diventa preda di una ritmata sequenza di situazioni imprevedibili, in continua trasformazione tanto che la loro percezione ed elaborazione diventano delle pure ipotesi. Curiosa un’analogia a dir poco rivelativa: l’etimologia della parola ‘ipotesi’ – sia in italiano che in inglese – deriva da Ypo (sotto) – thesis (posizione). La mostra ideata (ma sarebbe più opportuno dire elaborata) da Parreno è composta (parola che scelgo non a caso, visto l’aspetto ‘combinatorio’ di molte altre sue mostre precedenti) da installazioni e video che stanno tutte in alto. Il visitatore transita sotto le opere, le esperisce guardando dal basso o in prospettiva. Da qui l’analogia con l’etimo della parola hypothesis: restiamo in una posizione al di sotto, sia fisicamente che intellettualmente, rispetto alle opere, tanto da percepirle come pure astrazioni, ipotetiche forme e concetti frutto della collaborazione di più artisti (l’autorialità si fa ambigua), trasformazioni di lavori precedenti; mutevolezza nel percepire, nella sua globalità, il concetto stesso di ‘essere mostra’. Sempre in divenire, inglobante e sfumata, il meccanismo-mostra che Parreno inscena – fatto di luci, suoni, musica, immagini in movimento – ha come risultato, sottolineato dallo stesso artista, quello di voler fare del pubblico l’elemento centrale dell’intero progetto. Tempo e spazio sono asserviti, come fossero parte di un grande teatro allestito nell’enormità dell’Hangar, a quinte teatrali, mezzi melodrammatici per far vivere al pubblico ‘attore’ un’esperienza ogni volta unica e irripetibile. Il luogo museale – il palcoscenico – diventa una macchina del tempo che trasporta, blocca, trasla le nostre percezioni tanto da indurci a leggere e a conoscere le opere dell’artista francese come epifanie momentanee, oscure o, semplicemente, delle ipotesi interpretative.

Indicativo che Parreno abbia deciso di iniziare il percorso espositivo proprio con un’opera ‘chiave’: “Walkaround Time” di Jasper Johns del 1968. Composta da elementi di scena, questa installazione è un chiaro omaggio ad un’opera capitale del XX secolo, “La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche” (Il Grande Vetro) di Marcel Duchamp. Alla densità del riferimento, combacia la pregnanza del periodo e del motivo in cui questa opera è stata realizzata: la performance del 1968 di Merce Cunningham, coreografo tra i primi ad aver lavorato sulla relazione tra danza, musica e arte all’interno dell’azione scenica. Polisemica, enigmatica e antesignana, “Walkaround Time” segna dunque il tempo e la complessità dell’intera mostra di Parreno, ne segna l’inafferrabile durata, l’imprecisabile forma, l’indefinibile visione d’insieme. Perché, tra le tante sensazione che si hanno, una delle prime è il sentirsi irrequieti, si sente la necessità di spostarsi, di non stare fermi; mutare il punto di vista, spostarsi, è uno dei principali effetti dati dall’esperire questa mostra. Motivati dalla ricerca di una visione d’insieme, insaziabili nell’essere dove le cose accadono – proiezioni video, ritmi luminosi, composizione strumentali – continuiamo a deambulare nello spazio senza sosta, anche noi parte del meccanismo, elemento tra gli elementi.

Provvisti della consapevolezza che non sarà una mostra contemplativa, bensì appassionante (dunque che abbisogna della nostra complicità), ci avviamo verso l’installazione “Danny the Street” (nome mutuato dal personaggio creato da Grant Morrison e Brendan McCarthy per la DC Comics), è composta da 19 Marquees, sculture in plexiglass, luci e suoni, realizzate dal 2006 al 2015. Questa viene descritta dall’artista come una strada immaginaria intervallata da Marquees di diverse forme, ispirate alle insegne luminose utilizzate negli anni ’50 per promuovere i film in sala. In questo contesto, le insegne ‘fantasma’ diventano degli indicatori di eventualità, di possibilità di accadimenti. Attirano l’attenzione riempiendo il vuoto di impulsi luminosi, baluginii, tremori, folgorazioni, lampi di luce. Definite dallo stesso artista come “enormi didascalie in 3D”, le Marquees ci accompagnano per tutta la lunghezza della navata dell’Hangar, promettendo o indicando, segnalando o abbagliando i nostri passi: meta-opere di indubbia bellezza scultorea che ci ipnotizzano e, una volta spente tutte contemporaneamente, ci rimangono impresse nella retina, quasi minacciose.

L’orchestrazione di questi 16 elementi, il loro ‘suono’ o ritmo luminoso, è il frutto della collaborazione tra Parreno e  Nicolas Becker, Liam Gillick, Rajana Leyendecker, Mirwais e Robert AA Lowe. Nello spazio anche due pianoforti che diffondono registrazioni di Mikhail Rudy. Tutti gli elementi in mostra, dai suono alle luci ai video, sono controllati sa una tastiera Master Keyboard che ne ritma la successione.

All’inizio della ‘camminata’ incontriamo “Another Day with Another Sun” (2014), opera realizzata in collaborazione con Liam Gillick, composta da una luce artificiale che attraversa lo spazio espositivo grazie ad un sistema di binari sospesi che, per certi versi, rievoca il passaggio del sole dall’alba al tramonto. Questa e altre scenografiche soluzioni fanno si che la navata sia percorsa da un fitto e labirintico gioco di luci e ombre, saturando e congestionando così l’enormità che da sempre caratterizza l’Hangar. Nel mezzo del percorso, le proiezioni di alcuni film di Parreno: “The boy From Mars” (2003) “Invisibleboy” (2010-2015) “Marilyn” (2012), “The Crowd”, oltre ad altri proiettati su schermo: “Anywhere Out of the World” (2000) e ”Alien Seasons” (2002).

> Andrea Lissoni durante la presentazione stampa

Philippe Parreno “Hypothesis”,   installation view at HangarBicocca,   Milan Courtesy of the Artist; Pilar Corrias Gallery; Gladstone Gallery; Esther Schipper; Fondazione HangarBicocca,   Milan Photo: ©Andrea Rossetti

Philippe Parreno “Hypothesis”, installation view at HangarBicocca, Milan Courtesy of the Artist; Pilar Corrias Gallery; Gladstone Gallery; Esther Schipper; Fondazione HangarBicocca, Milan Photo: ©Andrea Rossetti

Seguono alcuni interventi del curatore Andrea Lissoni e Philippe Parreno tratti dalla conferenza stampa:

— Andrea Lissoni

“E’ stata un’avventura meravigliosa poter lavorare con Philippe per questa mostra. Il progetto è anche un passaggio importante per il programma che sta per essere lanciato. Per come è stata concepita la mostra, potremmo parlare di una vera e propria drammaturgia; utilizzando le opere di una precedente mostra tenutasi al Park Avenue Armory di New York, Philippe la deciso di installarle tutte nella parte alta dell’Hangar. (…) “Hypotesis” nasce dall’elaborazione della mostra di NY, chiamata “H {N)Y P N(Y} OSIS”. L’artista ha voluto rispettare le regole del gioco che Vincente Todolì – direttore artistico – ha dato all’Hangar Bicocca: non avere muri che impediscano di vivere lo spazio così com’è; proporre per la prima volta in Italia una mostra antologica di un artista; fare delle mostre esperienze uniche, irreplicabili, non fatte di opere site specific, ma che siano esse stesse site specific. Con”Hypotesis ” abbiano rispettato queste regole. (…) Quando abbiamo iniziato a pensare a che tipo di mostra sviluppare all’Hangar, per prima cosa l’obbiettivo è stato quello di rendere famigliare questo spazio, perché era recepito ancora lontano della città. Ma quest’anno Expo e la Fondazione Prada hanno fatto capire che Milano è una città allargata. L‘idea era di costruire uno spazio interno alla città, parte della sua logica artistica, in cui la questione del tempo fosse messa un po’ in questione. Philippe, senza poggiare alcuna opera a terra, è riuscito comunque a creare delle condizioni per cui il pubblico passerà nello spazio e fruirà della mostra anche sedendosi, prendendo contatto col suolo. (…) L’unicità di questa mostra è anche da ricercare nell’utilizzo di due caratteristiche che fino a questo momento abbiamo usato poco: luce bianca e suono. La sua costruzione e sviluppo, sembra molto semplice, ma richiede competenze ingegneristiche e anche museali specifiche – ogni opera è un’opera d’arte e va trattata e fatta viaggiare come una scultura preziosissima ed è stata come sempre montata con una rapidità e con competenze formidabili.”

Sono state poi poste delle domande all’artista, dalle cui risposte è emerso quanto segue:

C’è un team con cui Philippe Parreno lavora da 10 anni, basato su tre persone che fanno sì che le mostre siano realizzabili. Assecondando una precisa definizione dell’artista francese Daniel Buren, secondo cui non è solo la mostra in situ ma è il vivere la mostra ciò che davvero avviene in un luogo espositivo, la mostra di NY è stata uno studio, una prova, con anche dei musicisti che hanno creato appositamente delle opere che, una volta tornate a Parigi, sono state studiate e rielaborate, per poi integrarle nella mostra all’Hangar.

La mostra non è stata concepita dunque solo su di lui, ma su di loro, sulle persone con cui lavora e collabora. D’altra parte, la conversazione tra figure diverse incarna il modo di lavorare di Philippe. Non per niente entrando nel luogo espositivo si viene accolti dall’opera “set elements for ‘Walkaround Time’” (1968) di Jasper Jons, costituita da sette pannelli trasparenti gonfiabili appesi a soffitto, che riprendono alcuni elementi dell’emblematico e controverso “Grande Vetro” (1915-1923) di Marcel Duchamp. L’opera di Jasper rispecchia il dialogo che Philippe intrattiene con Jons, ma anche con Duchamp, con Cunnigham, con gli artisti a loro coetanei (…) Non è tanto una questione di connessione, ma partecipazione. Tino Sehgal ha realizzato il pezzo musicale che si sente appositamente per la mostra, regalandolo a Parreno. Poi è stato trasformato: non è, per Philippe, solo collaborazione, ma vera e propria conversazione, dialogo.

Parreno dà molta importanza alle persone che stanno nello spazio della mostra. Non vuole creare un progetto con funzione narrativa, ma mettere in scena le condizioni affinché il pubblico possa guardarsi, guardare ed essere guardato. Il pubblico non è soggetto ad un indice di tempo e ad un consumo, ma è concepito solo come un gruppo di persone che stanno insieme. (…) In mostra c’è anche la proiezione del film “Marilyn”, in cui emergono oggetti presi ed inseriti in un contesto che parla di morte: è stato costruito in un momento in cui Philippe era malato. “Drammaturgia” è la parola forse più pertinente per descrivere il processo del suo lavoro.

E’ come se l’artista in ogni progetto espositivo si ponesse questa domanda: Cos’è oggi una mostra? Lo stesso Tino Sehgal, ricorda Parreno, dice che “mostra” è un concetto del Settecento, ora è quasi obsoleto. Nonostante ciò, Philippe crede nello statuto “mostra”, nel fatto che essa è comunque un dispositivo centrale, che va riconosciuto, che è un atto pubblico e che le opere non esistono prima o dopo l’essere esposte. E’ uno spazio di definizione del campo dell’arte. (…) Il modo di lavorare di Philippe consiste anche nel passare molto tempo nello spazio espositivo dopo che è stato allestito. A NY, per quasi tutta la durata della sua personale, ha vissuto all’interno della mostra considerandola meccanismo vivente: prendeva note, guardava il pubblico, capiva cosa funzionava e cosa meno. Poi, tornato a Parigi, ha modificato in modo consistente le opere. Il museo che ha acquistato l’opera in questione, dunque, si trova ad avere un lavoro che non sarà più tale nella mostra successiva. Gli oggetti escono dallo studio, entrano in mostra e poi ritornano modificati e pronti a ricomparire forse sotto un altro aspetto. Qui non ci sono opere singole, ma un’unica opera frutto della vita precedente e dell’esperienza che questa ha prodotto: è qualcosa che esce dalla cerimonia, assorbe l’esperienza di questa e poi entra nel proprio guscio e la processa. Questa mostra è un processo entropico.

Testi raccolti da Marco Arrigoni

Philippe Parreno “Hypothesis”,   installation view at HangarBicocca,   Milan Courtesy of the Artist; Pilar Corrias Gallery; Gladstone Gallery; Esther Schipper; Fondazione HangarBicocca,   Milan Photo: ©Andrea Rossetti

Philippe Parreno “Hypothesis”, installation view at HangarBicocca, Milan Courtesy of the Artist; Pilar Corrias Gallery; Gladstone Gallery; Esther Schipper; Fondazione HangarBicocca, Milan Photo: ©Andrea Rossetti

Philippe Parreno “Hypothesis”,   installation view at HangarBicocca,   Milan Courtesy of the Artist; Pilar Corrias Gallery; Gladstone Gallery; Esther Schipper; Fondazione HangarBicocca,   Milan Photo: ©Andrea Rossetti

Philippe Parreno “Hypothesis”, installation view at HangarBicocca, Milan Courtesy of the Artist; Pilar Corrias Gallery; Gladstone Gallery; Esther Schipper; Fondazione HangarBicocca, Milan Photo: ©Andrea Rossetti

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