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Giovanni Kronenberg | Renata Fabbri, Milano

In occasione della seconda personale di Giovanni Kronenberg alla galleria Renata Fabbri di Milano, pubblichiamo un estratto del testo critico scritto da Davide Ferri per questa occasione (la versione integrale sarà pubblicata assieme ad altri interventi critici nella prima monografia,...

Installation view, Giovanni Kronenberg, 2020, Renata Fabbri, Milano – Courtesy l’artista e Renata Fabbri, Milano – Foto Cosimo Filippini

In occasione della seconda personale di Giovanni Kronenberg alla galleria Renata Fabbri di Milano, pubblichiamo un estratto del testo critico scritto da Davide Ferri per questa occasione (la versione integrale sarà pubblicata assieme ad altri interventi critici nella prima monografia, edita da Mousse Publishing – a cura di Alessandro Rabottini). Lo scritto sottolinea le relazioni e le analogie tra la ricerca scultorea e quella legata al disegno: un percorso che Kronenberg sviluppa in parallelo con evidenti assonanze tra i due mezzi espressivi.


Le opere in mostra riconfigurano i contorni di quella pratica della scultura, che Kronenberg ha messo a punto nel tempo, basata innanzitutto su un impulso a rintracciare e raccogliere cose dall’aspetto insolito ed eccentrico, dotate di un fascino magnetico e perturbante: elementi organici e inorganici come rocce e pietre, minerali e cristalli rari e preziosi, corna, ossa, pellicce, spugne marine e uova di struzzo ma anche vecchi manufatti, oggetti di cui spesso, solo lontanamente, si può indovinare l’uso.
Kronenberg mi è sempre sembrato incarnare una strana figura d’artista: genericamente duchampiano, ma anche artistocratico e un po’ snob, somiglia a una specie di collezionista di mirabilia infarcito di cultura post moderna. Kronenberg ama e divora, appunto, certa letteratura americana di un tardo postmodernismo – David Foster Wallace, Jonathan Lethem e Michael Chabon, per fare qual- che esempio. Non saprei come ritrovare, a eccezione di questa posizione letterariamente principesca che mi sembra incarnare, i fili dell’influenza della letteratura nel suo lavoro se non nella particolare abilità a collegare e combinare cose eterogenee e incommensurabilmente lontane nel tempo e nello spazio. In un’opera esposta da Renata Fabbri, ad esempio, la copertina di un vecchio LP sostiene un piccolo frammento di turchese iraniano a forma di parallelepipedo, diventandone una specie di piedistallo (secondo un’articolazione classica della scultura in “oggetto – basamento” che fa talvolta parte della grammatica di Kronenberg) o semplice estensione. Che cosa accomuna questi due oggetti così distanti se non quel colore turchese, acqueo, che, con una leggera variazione dal punto di vista tonale, appartiene a entrambi?
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Giovanni Kronenberg, “Soluzione del cubo di Le Marchand”, 2020 – Ghisa e foglia oro 22 K – Courtesy l’artista e Renata Fabbri, Milano – Foto Cosimo Filippini
Installation view, Giovanni Kronenberg, 2020, Renata Fabbri, Milano – Courtesy l’artista e Renata Fabbri, Milano – Foto Cosimo Filippini
Giovanni Kronenberg, “Senza Titolo”, 2020 – Blocchi di agata e riccio di castagna – Courtesy l’artista e Renata Fabbri, Milano – Foto Cosimo Filippini

Il rapporto tra gli oggetti e la realtà, per lo più ambiguo e sfuggente, costituisce una chiave d’accesso anche ai disegni di Kronenberg. Nei disegni dell’artista ricorre, infatti, una figura in primo piano che si colloca su uno sfondo monocromatico: se i primi disegni erano realizzati a carboncino su foglio bianco, i nuovi lavori presentano sfondi in cui il colore – il bianco, il nero, l’azzurro del foglio, il rosso, l’oro (realizzato con la stessa foglia d’oro che Kronenberg utilizza sempre più di frequente nelle sculture) – sospende l’immagine in una dimensione astratta, uno spazio senza riferimenti che sembra tradurre la presenza della figura in una specie di epifania o apparizione.
Mi accorgo di usare volutamente l’aggettivo “astratto”, e le parole “figurazione” e “astrazione” in rigida contrapposizione come nella più bolsa critica novecentesca. Il punto, perfino ovvio, è che se l’articolazione in figura e sfondo è alla base di qualsiasi grammatica figurativa, viene da chiedersi che tipo di immagini siano quelle in primo piano: figure che rinviano a un qualche referente/elemento di realtà o figure astratte che si collocano in uno spazio astratto? Mettiamola così: i disegni di Kronenberg rappresentano la possibilità di una pittura astratta che si realizza attraverso elementi che hanno un vago, fragile e multiforme legame con la realtà; una forma di astrazione ambigua che sottende una grammatica figurativa.
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Installation view, Giovanni Kronenberg, 2020, Renata Fabbri, Milano Da sinistra: “Senza Titolo”, 2019, Matite colorate su carta cm 37 x 27. “Senza Titolo”, 2019, Matite colorate su carta cm 37 x 27 – Courtesy l’artista e Renata Fabbri, Milano – Foto Cosimo Filippini
Giovanni Kronenberg, “Senza Titolo”, 2020 – Sfera di sopra pilastro del 1700, pietra di Vicenza e cenere – Courtesy l’artista e Renata Fabbri, Milano – Foto Cosimo Filippini
Giovanni Kronenberg, “Senza Titolo”, 2020 – Fette di Agata e foglia oro 22 K (dimensioni variabili) – Courtesy l’artista e Renata Fabbri, Milano – Foto Cosimo Filippini

Le figure disegnate da Kronenberg non rinviano con precisione a nessun oggetto del mondo. Sono piuttosto rappresentazioni di coaguli ed espansioni di materia – resistenti, ancor più delle sculture, a qualsiasi tentativo di interpretazione o analisi discorsiva e su un possibile contenuto – che riaffermano un’attitudine fondamentale all’interno della poetica di Kronenberg: la predilezione per la forma e l’ergonomia degli oggetti, la capacità di abbandonare lo sguardo e la mano alla tattilità e all’accidentalità della materia – esistono alcune video interviste in cui l’artista indica, sfiora e accarezza porgendoli alla videocamera alcuni dei suoi bizzarri oggetti, e mi sembrano un buon viatico al lavoro di Kronenberg -, di amplificarla attraverso innesti e applicazioni, con gesti minimi ed eleganti (nel caso della scultura), o di esplorarla e aumentarla (nel caso del disegno) attraverso una movimentata e incoerente varietà di chiaroscuri (come nei disegni in bianco e nero di alcuni anni fa), o con combinazioni di toni che ricreano pieghe, increspature e fratture della superficie, moltiplicate in forma caleidoscopica.
Sembrano sostenuti da due forze contrapposte: da una parte quella di un sfondo che isola e sospende la figura in una specie di atemporalità immanente, dall’altra quella di una figura che esalta il contingente, le eccentricità e le irregolarità della materia, o le trasfigura in una fluidità organica e astratta. Le materia disegnata presenta così una tessitura infinitamente porosa, spugnosa o cavernosa, e si scompone in pieghe sempre più piccole, che mantengono sempre un certo grado di coesione. I disegni sono dunque, per Kronenberg, esercizi di reinvenzione della materia, con colori instabili e imprendibili, percorsi da una specie di vibrazione, di iridescenza, che contamina l’integrità del tono dominante dell’immagine con un’infinità di sotto- toni che lo fanno vibrare per contrasto o per via di dissolvenze.

Giovanni Kronenberg, “Senza Titolo”, 2020 – Matite colorate e foglia oro 22 K su carta, cm 31×23 – Courtesy l’artista e Renata Fabbri, Milano – Foto Cosimo Filippini
Giovanni Kronenberg, “Senza Titolo”, 2020 – Fetta di Agata e foglia oro 22 K – Courtesy l’artista e Renata Fabbri, Milano – Foto Cosimo Filippini
Giovanni Kronenberg, “Senza Titolo”, 2020 – Matite colorate e foglia oro 22 K su carta, cm 43 x 31 – Courtesy l’artista e Renata Fabbri, Milano – Foto Cosimo Filippini
Installation view, Giovanni Kronenberg, 2020, Renata Fabbri, Milano – Courtesy l’artista e Renata Fabbri, Milano – Foto Cosimo Filippini