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Artist-run space 2017 | Gelateria Sogni di Ghiaccio | Giovanni Rendina

Prosegue la nostra rassegna sui giovani talenti proposti dagli spazi no profit italiani. E’ il turno dello spazio bolognese Gelateria Sogni di Ghiaccio che ha scelto di non proporre degli artisti, ma ha optato per la presentazione della pratica curatoriale di Giovanni Rendina...

Mattia Pajè - Do you come here often?, Installation view, 30 parrocchetti, luci blu e UV, Ponte Sanguinario, Spoleto, 2017. (cortesia dell’artista)
Mattia Pajè – Do you come here often?, Installation view, 30 parrocchetti, luci blu e UV, Ponte Sanguinario, Spoleto, 2017. (cortesia dell’artista)

Prosegue la nostra rassegna sui giovani talenti proposti dagli spazi no profit italiani. E’ il turno dello spazio bolognese Gelateria Sogni di Ghiaccio che ha scelto di non proporre degli artisti, ma ha optato per la presentazione della pratica curatoriale di Giovanni Rendina – di cui segue un testo – e Gabriele Tosi (che pubblicheremo i prossimi giorni).

Il nome Gelateria Sogni di Ghiaccio proviene dal primo episodio di collaborazione tra lo spazio stesso ed un artista, Roberto Fassone.
Quando Roberto è entrato per la prima volta nello spazio ha proposto di donare una sua opera che consisteva nel battezzare il luogo con un nome scelto da lui. L’unica condizione che ha posto a priori ai gestori dello spazio era quella di accettare incondizionatamente il nome, qualunque fosse stato, senza possibilità di modifica.
L’opera consiste di una serie di nomi inventati dall’artista con relativi loghi e brevi descrizioni, e della creazione di un torneo ad eliminazione al quale i nomi hanno dovuto partecipare. A decidere le sorti della competizione è stata la curatrice Valeria Mancinelli, che dai quarti di finale, alle semifinali, alla finale ha scelto il nome vincitore nelle varie gare. Il nome vincitore del torneo è stato Gelateria Sogni di Ghiaccio. (dal sito dello spazio)

Segue il testo di Giovanni Rendina, curatore proposto da Gelateria Sogni di Ghiaccio.

La mia pratica curatoriale è basata sul rapporto personale che stabilisco con gli artisti. Quello che mi interessa è creare un dialogo con loro e condividere esperienze. Fino ad ora, ho sempre creduto che la figura del curatore debba rimanere quasi invisibile nella formalizzazione di una mostra. Per questo motivo non tento di creare dei discorsi utilizzando le opere. Piuttosto, preferisco adottare il ruolo di cassa di risonanza nel momento in cui gli artisti ragionano sul proprio operato. Riducendo la voce curatoriale, cerco di lasciare che sia la voce degli artisti stessi ad estrinsecarsi nelle mostre. Quello che rimane a me, sono le vicissitudini e la crescita personale che si generano durante le varie collaborazioni. Ne sono un esempio Do you come here often? di Mattia Pajè e A Slump di Andrew Mealor.

Ho conosciuto Mattia Pajè ormai un paio di anni fa. Sin da subito Mattia si è rivelato una persona accogliente e disponibile, oltre che un artista molto interessante. Quest’anno, a luglio, ho avuto occasione di invitarlo a realizzare un’opera all’interno del Ponte Sanguinario a Spoleto. Il ponte Sanguinario è un ponte romano situato nel sottosuolo della città umbra: una breve scalinata conduce il visitatore in uno spazio decisamente peculiare, formato da due grandi arcate sotterranee.
Quando Mattia mi raggiunse in Umbria per un primo sopralluogo, vedendo lo spazio, si convinse di voler esplorare il concetto di mente. Le due arcate gli ricordavano i due emisferi cerebrali.
Una strana coincidenza ha voluto che a gestire le ore di apertura del sito archeologico, fosse un’associazione che si occupa di dare alloggio a persone con malattie mentali. Questo mi ha permesso, durante il successivo soggiorno di Pajè, di organizzare un paio di sopralluoghi presso la struttura e di conoscerne gli ospiti. Nella sua pratica, Mattia è interessato ad utilizzare i propri lavori al fine di sperimentare la possibilità di generare un effetto psico-fisico positivo sul visitatore, che sia conscio o meno. Dal mio canto ero intrigato dal poter sovrascrivere la figura del curatore con quella della cavia.
Mattia pensò di portare delle ossessioni che si muovessero e grattassero all’interno di quello che lui vedeva come un cervello sotterraneo. La forma che volle dare a questi pensieri ricorrenti erano 30 cocorite libere all’interno dello spazio.

“Mattia, ma che cazzo dici?”

“Eh sì zio”

Quando mi disse così scoppiai in una risata e, allettato dalla follia della cosa, mi resi disponibile a supportarlo in ogni modo. Inoltre ero molto interessato ad inserire dei volatili in un luogo sotterraneo. Questo tipo di azione è riconducibile molto direttamente alle pratiche con le quali vengono create le immagini che popolano i social network. Di frequente, navigando, ci capita di incontrare fotomontaggi nei quali soggetti, spesso animali, sono inseriti, o meglio “incollati”, in un ambiente ad essi totalmente estraneo. L’idea di ribaltare questa modalità in maniera fisica, per quanto di difficile realizzazione, mi colpì molto.
Le cose per me ovviamente si complicarono. Da lì a poco venni a sapere che mi sarei dovuto interfacciare con l’inespugnabile Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria. Dopo essere stato rimbalzato tra svariati uffici e un museo, riuscii finalmente ad avviare l’iter relativo al permesso. La mia speranza si chiamava Geometra Pastini. Lui si prese carico della mia pratica.
Il weekend successivo andai a Bologna. La ragazza che frequentavo allora, Luigia, inaugurava una mostra con un suo nuovo lavoro. Mi sembrò un’ottima occasione per farle una sorpresa e passare un po’ di tempo insieme. Purtroppo una volta lì, i trenta pappagalli, presero forma di pensiero ricorrente nella mia testa.
Ero con lei, ma ad ogni attimo di silenzio mi tornavano in mente, facendosi sempre più spazio, i pappagalli. I pappagalli e il geometra Pastini della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria.
Dopo aver deteriorato irreparabilmente la mia relazione, tornai a Spoleto più determinato che mai a portare avanti il progetto. I giorni però passavano, e la macchina burocratica non accennava a prendere velocità. Ciclicamente, rigonfio di speranza, chiamavo la soprintendenza, la quale mi assicurava che i permessi sarebbero arrivati l’indomani. Nel frattempo Luigia si faceva sempre più distante e nel tentativo di aggrapparmi a lei, la allontanai definitivamente. Come succede ai passaggeri nel treno regionale che alle 18.35 parte da Bologna verso Ancona, i pensieri ricorrenti nella mia testa iniziarono ad affollarsi. Luigia, i Pappagalli, Geometri e gli Impiegati del Comune di Spoleto si alternavano vertiginosamente nella mia testa. Una notte mi svegliai da un incubo e chiamai Luigia in preda al panico, l’unica cosa che riuscivo a fare era ripeterle il suo nome.
In questa delirante escalation a soli 4 giorni dall’apertura, dopo la mia ennesima chiamata, il Geom. Pastini mi comunicò che il progetto era stato bocciato. Dopo una serie di bestemmie e ed un iniziale abbattimento, mi rimboccai nuovamente le maniche e riuscirai a mettermi in contatto con un’archeologa della Soprintendenza che prese l’impegno di occuparsi della mia pratica. Luigia, i Pappagalli, i Geometri, gli Impegati, e ora anche un’archeologa si era aggiunta ai pensieri che stavano squattando la mia mente.
Insieme ai Pappagalli, Pajè decise di installare anche delle serie numeriche frutto di una sua ricerca relativa ad una pseudoscienza russa. I numeri in questione, secondo tale pseudoscienza, fungono da cure per malattie mentali. Partendo dall’assioma che tutta la realtà è formata da dati, l’idea è quella di agire sulla realtà stessa tramite l’utilizzo di dati numerici.
Una volta ricevuti tutti i permessi, procedemmo all’installazione. Il risultato si è concretizzato in un habitat anomalo, all’interno del quale la componente visiva data dall’utilizzo di luci UV e Blu andava a colpire il visitatore insieme al forte elemento sonoro del verso, non sempre aggraziato, delle cocorite.
Su di me l’installazione ebbe un effetto singolare, infatti ha scoperchiato una parte interiore alla quale non avevo mai badato. Oltre ad avermi lasciato in una totale confusione, infatti, mi ha portato a porre particolare attenzione ai pensieri che mi attraversano e a cercare uno stato di maggiore presenza e controllo della mente e del suo lavorio.

Mattia Pajè - Do you come here often?, Installation view, 30 parrocchetti, numeri in metallo, luci blu e UV, Ponte Sanguinario, Spoleto, 2017. (ph Emanuela Duranti)
Mattia Pajè – Do you come here often?, Installation view, 30 parrocchetti, numeri in metallo, luci blu e UV, Ponte Sanguinario, Spoleto, 2017. (ph Emanuela Duranti)

A SLUMP, solo show di Andrew Mealor a Gelateria Sogni di Ghiaccio, ha compreso quattro lavori inediti dell’artista di base a Londra.
Andrew, sottoponendo immaginari ad un processo di afflizione e ricostruzione, senza proporre chiavi di lettura, fornisce agli spettatori nuove condizioni di interpretazione. Risultato del suo rapporto con materiali e ambiente, i quattro untitled sono sculture dalla fisicità ambigua, sia morbide che dure. La loro struttura, infatti, è data da stoffa che, tagliata e cucita insieme, forma dei cuscini. Questi involucri sono imbottiti e ricoperti di cemento.

Il cemento, una volta asciugatosi, durante gli spostamenti e l’installazione delle opere, forma delle crepe su una vastissima porzione della propria superficie, lasciando intravedere i teli colorati sottostanti. Per essere installati, i lavori sono violentemente sbattuti al suolo dall’artista. Operazione che, se da una parte rende le sculture tali ponendole verticalmente, sancisce l’inizio della loro degradazione.
Le sagome scelte da Mealor per il taglio e la cucitura delle statue sono prese da pitture murali delle quali si è appropriato. Questa scelta è dovuta alla ricerca di forme che per lui non avessero alcun significato, né alcuna importanza estetica. Traslando scritte bidimensionali in oggetti tridimensionali, nei lavori si configura una tensione tra le qualità testuali e quelle formali. Le tag, diventando altro da sé, sembrano crollare a terra schiacciate e deformate dal proprio peso. Se osservate da molti punti di vista, lettere ammaccate e sgonfiate acquistano sembianze corporali, per poi tornare ad essere segno allo spostarsi dell’osservatore.
Andrew si è interrogato sull’idea di resistenza che permea i graffiti, i quali sono una reazione, consistente semplicemente nell’affermare la propria presenza, di un individuo nei confronti della società. L’attitudine di Mealor nel suo lavoro è molto simile. Esercitando una resistenza nei confronti delle pressioni della società e del mercato dell’arte, egli difende la sua posizione, senza cercare giustificazioni. In questo suo lavoro la mia pratica curatoriale si è formalizzata nel pormi al suo fianco nel resistere e abbracciare il suo punto di vista, non sempre lucido e strutturato. La settimana durante la quale ho lavorato alla mostra con Andrew e Filippo Marzocchi, è stata infatti abbondantemente annaffiata da alcolici. Come le sue statue schiacciate dal proprio peso resistono, affiaccate, al logorio dell’esistenza, ci siamo trascinati ubriachi ed ammaccati per le vie di Bologna senza uno scopo preciso se non quello stesso di esserci.

Andrew Mealor - A SLUMP, exhibition view, Gelateria Sogni di Ghiaccio, Bologna, 2017 (cortesia dell’artista)
Andrew Mealor – A SLUMP, exhibition view, Gelateria Sogni di Ghiaccio, Bologna, 2017 (cortesia dell’artista)
Andrew Mealor - A SLUMP. Untitled, cemento, asciugamani, pigmento ossido rosso e polistirolo, 2017 (cortesia dell’artista)
Andrew Mealor – A SLUMP. Untitled, cemento, asciugamani, pigmento ossido rosso e polistirolo, 2017 (cortesia dell’artista)