Per il secondo anno al Lovers Film Festival (20-24 Aprile 2018) l’interferenza tra cinema e arte contemporanea ha trovato il suo campo energetico nella Sezione ICONOCLASTA a cura di Artissima e Centre d’Art Contemporain Gèneve. Sotto il cappello IRREGULAR LOVERS la sezione attinge a una libertà sperimentale con cui fare e disfare generi e formati, abitare gli interstizi tra linguaggi e visioni, e tra identità sessuali molteplici, volontà che hanno trasformato la sala tre del Massimo nella sala dedicata al New Queer Cinema, attraverso una selezione di quindici film divisi in slot, ciascuno legato a una performance, eseguita o raccontata.
La sala usata come luogo performativo instaura una relazione tra corpi e visioni inedita per la dark room, e chiama il pubblico all’azione, a riconoscerci da qualche parte nell’incompiuto come umanità nuova al di fuori di in uno spazio (etero)normato.
Irene Pittatore apre la prima giornata con il racconto del suo laboratorio performativo You As Me/ nei panni degli altri, condotto a CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, dove ha coinvolto una decina di persone in un’esperienza di esplorazione della propria identità attraverso il gesto semplice e fortissimo di indossare i vestiti di qualcun altro. Un esercizio di presa di consapevolezza dell’immagine che proiettiamo di noi stessi, della nostra pelle sociale, e di un suo momentaneo abbandono in cambio di quella di una persona cara, vivendo lo scarto tra la propria identità messa da parte e un’altra presa in prestito. Attraverso la fotografia l’artista ha restituito questa nuova cognizione innescando un confronto tra i performer, che hanno liberato una forte carica espressiva, attraverso gli abiti, trasformati in potenti metafore: bozzoli che proteggono, maschere che filtrano, l’adesione a un ruolo, a un genere, a uno status, modi per chiedere perdono, colmare assenze, evocare presenze.
Il pubblico assiste a una celebrazione della vulnerabilità dei corpi, e del loro potenziale politico, nel racconto di un esperimento dagli esiti imprevedibili che passano per la vanità, la vergogna, il riconoscersi, il disimparare la propria immagine ed esercitarsi nelle metamorfosi. Delicatezza che cede il passo ai toni sarcastici a metà tra l’incubo e il burlesco, delle favole erotiche di Bertrand Mandico, cui è dedicato l’intero pomeriggio.
Ma gli abiti come palette con cui costruire archetipi e attuare trasformazioni tornano la seconda giornata nel film di Carlos Conceição Coelho Mau, che ha per protagonista un adolescente che indossa un cappello con orecchie di coniglio, e il desiderio di diventare lupo un giorno. Una narrazione aspra e affatto pacificata in cui il ragazzo e la sorella, precipitati in una dimensione senza tempo, sono legati da un amore perverso ma così profondo da inabissarsi nell’inconscio e scombinare i ruoli.
In apertura dello slot il cortometraggio Phantom di Gonçalo Almeida nello spazio di un brivido traccia la silhouette dell’ombra di un’assenza che fatica a colare via dal presente, una visione dalle qualità tattili che lascia il nodo in gola.
A gettare gli animi, gli occhi e le orecchie nel caos dell’irriverenza sarà quindi il duo ConiglioViola con Recuperate le vostre radici quadrate, uno spettacolo multimediale che in un mash up di video, performance e musica elettronica, esalta la matrice queer della sezione, violentando la distinzione tra generi, pasticciandone la tassonomia e percorrendone funambolicamente i confini.
Un istrionico viaggio nell’estetica degli anni 80 italiani attraverso la reinterpretazione di pezzi delle sue protagoniste più glam, le dive dell’ultima era musicale capace di dar corpo a una mitologia di massa cui aspirare e ispirasi, modelli che sarebbero andati in frantumi nel decennio successivo. Marcella Bella, Giuni Russo, Fiorella Mannoia, Loredana Bertè, Viola Valentino: regine di un olimpo pop che rivela tutta la sua attualità in tempi che hanno fame di mitologie e narrazioni fantastiche.
La terza giornata assai concitata, si apre con Où en êtes-vous, João Pedro Rodrigues? un racconto autobiografico del regista omonimo, il cui corpo nudo si riflette nel paesaggio vegetale per fondervisi, e sciami di farfalle ricoprono interamente alberi modificandone l’aspetto, intrecciando vita e natura in un equilibrio delicatissimo tra lo shock e l’incanto.
Ambiguità che permane in Flores di Jorge Jácome, vincitore della sezione, che in uno scenario apocalittico, tragico e sublime, racconta degli abitanti delle Azorre costretti a lasciare le isole, completamente invase da piante di orchidee, una natura crudele cui l’identità dei singoli è legata in maniera ineluttabile.
I toni si fanno più ironici, in una chiave caustica e ipnotica, in Smågodis, katter. Och lite våld (Swedish Candy, Some Violence and a Bit Of Cat) (Ester Martin Bergsmark) che erode canoni e convenzioni con una fluidità che fonde amore e violenza, odio e amicizia, generi, e ogni sorta di binarismo di troppo.
A chiusura con La Gabbia Caterina Ferrari usa la lotta e l’estetica dei corpi nudi, colti in uno stato di fatica e sofferenza, per ritrovare, in campi strettissimi, una potenza arcaica degna della scultura classica.
La performer ospite dello slot è Francesca Arri che racconta l’uso che nella sua pratica artistica fa del corpo, epicentro e vettore con cui relazionarsi agli altri, e astrarsi dalla propria singolarità materiale per farsi corpo collettivo.
L’ultima giornata si apre con la performance Distendere le labbra, mostrare i denti, un itinerario iconografico della storia del sorriso, il racconto genealogico di una pratica conformista che a partire dall’eredità lasciataci dai primati del mostrare i denti a scopo intimidatorio e seduttivo, è stata snaturata e medicalizzata al servizio di una finzione sociale, resa poi indispensabile alla nostra immagine pubblica, e virale nelle foto grazie all’innovazione dello scatto velocissimo.
Il sorriso diventa archivio politico e culturale di un fare, di un inganno accettato socialmente sulla rappresentazione del sé, una comune menzogna che ci fa belli.
A seguire la visione evanescente e sofisticatissima di Exhumation di Daniel Mcintyre ci sprofonda in immagini trattate chimicamente che disintegrano figure e memorie in aloni fantasmatici, mentre il lungometraggio M/M di Drew Lint torna sul tema dell’identità e della trasformazione in chiave ossessiva e magnetica.
Giunti al termine un senso di svuotamento e malinconia coglie come alla fine di ogni cosa, e lascia una carica emotiva che spinge verso fuori, verso l’altro. Rimane l’eco urlata di un invito a liberarsi da costruzioni artificiose- contestuali e mai essenziali- a decolonizzare i binarismi, non in cambio di una vagheggiata neutralità post-ognicosa, ma di un atletismo per muoversi tra i generi, come mutanti- e un po’ bastardi- per recuperare un’umanità più ricca che avvalori la complessità dell’indeterminatezza. Un auspicio che si inserisce nella cornice specifica non eterocentrata della comunità lgbtqi e va in direzione di una trasversalità culturale che renda questo mondo un posto più vivibile per tutti.
Come David Bowie in The man who fell to earth (1976) arriva da alieno sulla terra e decide di trasformarsi in umano, abbiamo la libertà di compiere metamorfosi e adattarci alla pressione di pianeti inesplorati.

Smågodish,katter och lite våld (Swedish Candy, Some Violence and a Bit of Cat), Ester Martin Bergsmark