Guido Van Der Werve | Monitor

Van Der Werve è in grado di citare un immaginario alla Caspar David Friedrich disintegrandone però il senso del sublime: non c'è Sehnsucht (struggimento) nelle sue opere, il richiamo al romanticismo è soltanto estetico.
15 Gennaio 2016

  • Guido van der Werve, installation view at Monitor, Rome. Photo credit: Massimo Valicchia. Courtesy: the artist and Monitor, Rome
  • Guido van der Werve, installation view at Monitor, Rome. Photo credit: Massimo Valicchia. Courtesy: the artist and Monitor, Rome
  • Guido van der Werve, installation view at Monitor, Rome. Photo credit: Massimo Valicchia. Courtesy: the artist and Monitor, Rome
  • Guido van der Werve, installation view at Monitor, Rome. Photo credit: Massimo Valicchia. Courtesy: the artist and Monitor, Rome

All’ingresso della galleria Monitor c’è un certo frastuono: dalla sala a destra provengono tonfi che si ripetono con cadenza regolare, da quella a sinistra un rumore d’acqua scrosciante. Entrando nelle sale scopro che si tratta di due video: nel primo un uomo si lancia su un letto, si rialza e si butta di nuovo, nel secondo lo stesso uomo marcia sul posto (e il posto è una vasca da bagno piena d’acqua). In un angolo di entrambe le proiezioni compaiono cifre che sembrano seguire lo scorrere del tempo o indicare una distanza.

Quelli che Van Der Werve (olandese, classe 1977) mette in scena all’interno delle rassicuranti mura domestiche (un’anonima camera da letto e un bagno) sono sforzi fisici che corrispondono, per durata/distanza percorsa, alla scalata del Monte Everest e la alla discesa nell’abisso oceanico più profondo della terra. La camminata nella vasca e i lanci sul materasso sono performance fisiche della durata di dieci ore: la galleria rimane aperta dalle 11 alle 21, così da poterne rispettare il reale svolgimento.

Con quest’opera ridicola e poetica l’artista rielabora e dà forma a due energie opposte, come se rispondesse all’interrogativo che apre l’Hymne à la Beauté di Baudelaire: “Viens-tu du ciel profond ou sors-tu de l’abîme, / O Beauté?”. Il Monte Everest è una metafora dello sforzo individuale di raggiungere il picco più alto, uno slancio positivo, mentre il più profondo degli abissi si presta a un’interpretazione metaforica opposta, come richiamo verso il basso o attrazione per ciò che è profondo, buio, ma anche pulsante e ricco di misteri (basti pensare all’abisso baudelairiano). La location casalinga e la serietà un po’ annoiata dell’artista mentre salta/cammina hanno il potere di contaminare il valore metaforico di queste imprese, mescolando alla forza sovrumana di Ercole un’autoironia alla Buster Keaton.

Ho notato subito la rumorosità dei video in mostra perché, normalmente, la colonna sonora ha nell’opera di Van Der Werve un ruolo fondamentale. Solitamente le missioni sono accompagnate dalle opere dei suoi pianisti preferiti: Frédéric Chopin, Sergei Rachmaninov, Sergei Prokofiev, Wolfgang Amadeus Mozart, a volte suonate dall’artista stesso (che è anche compositore). Nel lavoro di Van Der Werve la passione per la musica si accosta, in modo sorprendente e armonioso, a una reale eccellenza in campo sportivo e in particolare nella disciplina del Triathlon.

Nummer zeventien fa infatti parte di una serie di video accomunati dall’utilizzo della performance sportiva come dispositivo simbolico e del corpo in movimento come unità di misura del tempo e dello spazio. In Nummer dertien, you’re only half a day away (2011) l’artista corre per 12 ore intorno alla sua casa in Finlandia. La prima parte dello stesso video è costituita dalla documentazione di una maratona messa in atto per la prima volta nel 2009, quando l’artista corre dalla sua galleria Luhring Augustine di New York fino alla tomba del compositore Sergei Rachmaninov (55 km), tenendo in mano un mazzetto di camomilla.

Negli altri video l’artista viene investito da una macchina e viene circondato da ballerine, costruisce un missile nel suo soggiorno, suona un notturno di Chopin in mezzo a un lago (e quando ha finito nell’aria risuona il Requiem di Mozart e un coro e un’orchestra compaiono su una barca – citando l’Isola dei morti di Arnold Böcklin e forse anche Fitzcarraldo di Werner Herzog), cade improvvisamente dal cielo e finisce dritto in acqua.

L’opera di Van Der Werve può certamente ricordare quella del connazionale Bas Jan Ader a partire dall’interesse estetico e artistico per l’acqua, elemento prediletto da entrambi. Tuttavia, se l’opera del successore riesce a conservare la delicatezza con cui Ader sapeva maneggiare il senso del ridicolo, risulta depurata dall’inquietudine e dalla tragicità che pervadono i video e le azioni del primo (basti pensare a I’m too sad to tell you o all’ultima, fatale missione in mare: In search of the miraculous).

Van Der Werve, infatti, è in grado di citare un immaginario alla Caspar David Friedrich disintegrandone però il senso del sublime: non c’è Sehnsucht (struggimento) nelle sue opere, il richiamo al romanticismo è soltanto estetico. Lo slancio è appagato, la cima dell’Everest raggiunta, l’abisso penetrato (con metodi alternativi, certo, ma assolutamente efficaci), il desiderio è esaudito. La passione per il Triathlon, le inquadrature in movimento (mentre nuota, corre o pedala), le cadute del protagonista ricordano piuttosto un certo tipo videogioco in cui l’eroe deve correre per raggiungere una meta e superare una serie di ostacoli e piccoli nemici. A volte perde (Game Over: cade nel lago, prende fuoco, una macchina che lo investe) ma basta un click per farlo rinascere. Così paesaggi che potrebbero esprimere malinconia e solitudine (ad esempio la Finlandia del video in cui cammina davanti a una nave rompi-ghiaccio o il Polo Nord del video in cui sta in piedi per 24 ore rifiutando di “ruotare insieme al mondo”) hanno al contrario un effetto tonificante, motivazionale.

Nei lavori in mostra da Monitor l’artista abbandona l’armamentario romantico (niente musica classica, niente “paesaggio con figura”) e riduce ai minimi termini la propria poetica, mantenendone l’essenziale: l’attrazione per il superamento dei limiti, il pensiero laterale, la missione apparentemente impossibile ma effettivamente riuscita e quel mix tra senso del ridicolo (uno sguardo tenero sulla propria piccolezza – e dunque la piccolezza dell’essere umano) e forza sovrumana che è il vero ingrediente poetico di queste opere.

Guido van der Werve,   Nummer zeventien killing time - attempt one: from the deepest ocean to the highest mountain,   2015,   installation view at Monitor,   Rome. Photo credit: Massimo Valicchia. Courtesy: the artist and Monitor,   Rome

Guido van der Werve, Nummer zeventien killing time – attempt one: from the deepest ocean to the highest mountain, 2015, installation view at Monitor, Rome. Photo credit: Massimo Valicchia. Courtesy: the artist and Monitor, Rome

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