Le mostre dipinte al Kunst Merano

Intervista con la curatrice Christiane Rekade, direttrice artistica del Kunst di Merano
13 Aprile 2017

Ultima settimana di apertura della mostra a cura di Christiane Rekade, Exhibition Paintings: una collettiva che raccoglie le opere di Charles Avery, Paolo Chiasera, Dorothy Miller, Martin Pohl, Lea von Wintzingerode e Amelie von Wulffen. Ospitata al Kunst Merano, la mostra ha mutuato il titolo da una ricerca dell’artista Paola Chiasera, che ha realizzato, nel corso degli ultimi sette anni, un ciclo di dipinti i cui soggetti sono vere e proprie mostre curate dall’artista stesso o in collaborazione con un curatore. Da questa idea, la curatrice ha intrapreso un excursus sul concetto di “mostre dipinte”. Nell’intervista che segue, Rekade entra nel merito della ricerca degli artisti in mostra raccontandoci le motivazioni di molte loro scelte.

ATP: La mostra Exhibition Paintings presenta l’opera di sei artisti che concepiscono la pittura quale potenziale per ampliare il concetto stesso di esposizione. Come è iniziato questo progetto? Dove è nata l’idea di raccontare la pittura da un punto di vista così particolare?

Christiane Rekade: L’idea della mostra è partita da una serie di lavori di Paolo Chiasera – da cui ho anche preso in prestito il titolo exhibition paintings. Paolo, artista che ho conosciuto diversi anni fa a Berlino, sta lavorando da più di 7 anni a questa serie (ha realizzato il primo exhibition painting nel 2010), che consiste in una serie di mostre – curate da lui stesso o in collaborazione con un co-curatore, composte da opere vere e realizzate da artisti altrettanto reali – che però non hanno mai avuto luogo e che esistono quindi esclusivamente all’interno dei suoi quadri.
L’idea che un artista possa immaginare e creare una mostra che abbia luogo esclusivamente su tela mi ha molto affascinata e colpita. Seguendo lo sviluppo degli exhibition paintings di Paolo, mi è venuta voglia di approfondire il concetto di “mostre dipinte”, perché, oltre che interessante mi sembrava decisamente innovativo. Nel farlo ho scoperto che altri artisti stanno operando nella stessa direzione – in modo più o meno contemporaneo, naturalmente con approcci e risultati diversi, ma ugualmente vicini tra loro. La mostra raccoglie e mette in relazione reciproca i lavori di Charles Avery, Paolo Chiasera, Dorothy Miller, Martin Pohl, Lea von Wintzingerode e Amelie von Wulffen.

ATP: In che senso la pittura è “una possibilità di emancipazione dalle nuove condizioni lavorative imposte dal presente”?

CR: Ritengo che uno degli aspetti più interessanti della ricerca sviluppata da questa serie di artisti risieda nella capacità/possibilità di aggirare quegli ostacoli che normalmente si incontrano – specie di questi tempi – nella produzione “convenzionale” di una mostra, ma anche delle opere stesse: non esistono, ad esempio limiti di budget, spaziali o di valore assicurativo.
Questi artisti si prendono la libertà di creare delle mostre che altrimenti non sarebbero possibili. È in questa libertà che vedo l’emancipazione dalle nuove condizioni lavorative imposte dal presente e riconosco un atto di resistenza e speranza. E questa è l’altra cosa che più mi piace: queste opere riescono ad immaginare un’alternativa alla situazione attuale, offrono una visione differente del presente.

ATP: La ricerca dei sei artisti invitati si sviluppa in due direzioni: Charles Avery, Paolo Chiasera e Martin Pohl concepiscono nuove mostre che “si attuano” esclusivamente sulla tela, Dorothy Miller, Lea von Wintzingerode e Amelie von Wulffen ricercano all’interno del proprio lavoro, quei meccanismi sensibili e mutevoli che entrano in atto nel rapporto tra l’artista e il proprio pubblico. In merito alla ricerca di questi ultimi, mi racconti come tracciano, in modi diversi, la relazione opera-pubblico?

CR: Nelle opere di Lea la presenza del pubblico è la prima cosa che salta all’occhio. Il pubblico o più semplicemente le persone che frequentano il quadro sono più importanti dei lavori esposti, che spesso quasi non si vedono. In effetti la mostra diventa piuttosto un pretesto per immaginare un momento di condivisione e di scambio, leggero e aperto. Nel caso di Dorothy Miller le mostre sono lo spunto per mappare un percorso già avvenuto, giocando e corrompendo l’idea di documento e di autorialità. Per Amelie la questione si fa più complicata, le mostre per lei sono solo la tessera di un puzzle più grande, uno tra i tanti elementi dell’intricato e complesso ecosistema che ruota intorno alla figura dell’artista. Nei suoi lavori è più la psicologia che sta dietro alle cose ad attivare il lavoro.

Paolo Chiasera - Martin Pohl - Installation views -  Exhibition paintings,  Kunst Meran Merano Arte,  2017. Photo: Ivo Corrà © the artists and Kunst Meran Merano Arte 2017

Paolo Chiasera – Martin Pohl – Installation views – Exhibition paintings, Kunst Meran Merano Arte, 2017. Photo: Ivo Corrà © the artists and Kunst Meran Merano Arte 2017

ATP: In merito alla ricerca di Charles Avery, Paolo Chiasera e Martin Pohl, le loro opere testimoniano delle meta-esposizioni: i dipinti diventano luoghi dove allestire, curare o immaginare delle vere e proprie mostre. A parte questa semplice traccia che li accomuna, in realtà, le loro opere si differenziano per molte ragioni. Mi racconti la diversità che contraddistingue la loro ricerca pittorica?

CR: Il lavoro di Chiasera è molto complesso e, a partire dalla realizzazione del primo exhibition painting, il concetto dal quale è partito ha subito un notevole sviluppo, allargando il proprio respiro, divenendo più visionario, e incrementando le proprie potenzialità. Così per esempio, l’exhibition painting: “the art of conversation” (2012) – una delle opere in mostra – non si limita a porre in dialogo reciproco un’opera di René Magritte con una scultura di Oscar Tuazon, ma le espone in una porzione dello studio di Albert Einstein a Potsdam/Berlino che, per l’occasione, è stato ricostruito davanti all’edificio dell’Assemblea Nazionale del Bangladesh a Dacca, progettato da Luois Kahn. Ma la novità nel lavoro di Chiasera risiede nel fatto che l’artista non si appropria solo di opere esistenti (secondo una pratica che ad uno sguardo superficiale potrebbe ricordare il name-dropping) ma ne produce di nuove.
Per questa mostra ad esempio, due artisti hanno concepito due lavori nuovi. L’artista bengalese Naeen Mohaiemen mostra per la prima volta il video inedito (titolo anno) su una scultura/dispaly   che Riccardo Previdi ha ideato e realizzato appositamente per questa mostra.
Nel caso di Avery parte tutto dall’isola imaginaria Onomatopoeia – ideazione intorno alla quale l’artista ha sviluppato tutti i suoi lavori da 2005 in poi. Nel 2013 l’artista ha fatto una cosa molto simile a Chiasera: ha invitato il curatore Tom Morton a curare la prima mostra nel nuovo museo d’arte moderna e contemporanea di Onomatopoeia. È possibile apprezzare la mostra inaugurale in una serie di disegni, che Avery ha mostrato da Pilar Corrias. Oltre all’aspetto relativo alla libertà nella scelta e composizione dei lavori, per Avery è estremamente importante un altro fattore: il pubblico con le proprie reazioni.
Martin Pohl invece non cura delle mostre nel senso secondo il quale operano Avery o Chiasera, realizzando invece lavori “site-specific” negli spazi dei musei che lo interessano di più – come la Pinakothek der Moderne a Monaco, …. ma anche come il piccolo Museo Liner nell’Appenzello. La sua pratica ricorda maggiormente un’appropriazione “illecita” dello spazio, un po’ alla stregua dei graffitari negli spazi urbani.

Chi è Dorothy Miller? Cosa e chi si ‘nasconde’ dietro questo pseudonimo?

CR: Dorothy Miller è un artista anonimo, che cela la propria identità sotto questo pseudonimo. La “vera” Dorothy Miller era una curatrice del MOMA di New York dal 1934 al ’69, una delle personalità più influenti nello sviluppo dell’arte nordamericana del dopoguerra. Le copertine dipinte, che faccio vedere a Merano – sono tutte collegate ad una serie di mostre “The New American Painting”, che sono state curate da lei in otto paesi europei tra il 1940 e il ’60.

ATP: In cosa consiste l’allestimento sperimentale attuato dalla giovane artisti Lea von Wintzingerode per coinvolgere il pubblico nel suo lavoro?

CR: Ah questa frase l’ho scritta prima di aver installato la mostra… Allude al fatto che la pittura di Lea non è fatta per stare appesa in maniera composta alle pareti. I suoi quadri occupano lo spazio con leggerezza e imprevedibilità, come farfalle danzanti (e, non a caso, sono spesso accompagnati da composizioni al pianoforte realizzate dall’artista stessa). Wintzingerode spesso sperimenta con l’allestimento dei suoi quadri, per creare un’esperienza aperta, anti monumentale, che si confronta, problematizzandola, con un’idea preconcetta e prevalentemente maschile del fare pittura.
Ho visto alcune sue mostre nelle quali i quadri erano appesi al soffitto grazie a fili di nylon e altre nelle quali i lavori si trovavano letteralmente davanti alle finestre. All’inizio pensavamo di realizzare anche a Merano un allestimento di questo genere, poi però abbiamo optato per una scelta più tradizionale – ad eccezione di un quadro che abbiamo praticamente incollato sulla parete in vetro del vano dell’ascensore, riprendendo così le vetrate, i giochi di specchi e l’idea di trasparenza presenti in molti quadri dell’artista.

ATP: Tra i sei artisti, Amelie von Wulffen è quella che utilizza la pittura per sdrammatizzare o ironizzare molti degli aspetti che ‘asfissiano’ il mondo dell’arte. In che modo l’artista utilizza la propria autobiografia per compiere escursioni nella storia dell’arte presente e passata?

CR: In mostra Amelie, oltre ai quadri, presenta un dia-show nel quale le pagine di un fumetto creato dall’artista, si susseguono in sequenza. Disegnato a matita su carta bianca senza troppi fronzoli e con una certa durezza, la protagonista di questa breve storia illustrata è un’artista mid-career (il riferimento alla propria biografia è solo marginale, in realtà l’analisi è applicabile alla maggior parte degli artisti) che si trova coinvolta in una serie di situazioni tragicomiche, tipiche della condizione di chi non rientra più nella categoria degli artisti emergenti ma è ancora troppo giovane per venire annoverato tra i maestri. Attanagliata da dubbi circa le strategie da attuare alle cene nei dopo opening o in preda al panico nel tentativo di fare ego-googleing (ovvero la ricerca del proprio nome su Google per misurarne la notorietà) il fumetto mette in scena il lato comico (e umano) dell’essere artista. Critico, autoironico e ricco di sense of humor, il dia-show aiuta a comprendere meglio anche i quadri, attraverso uno stile a tratti accademico e a tratti amatoriale che mette in scena – anche in questo caso con una buona dose di ironia – l’atto del dipingere e il ruolo dell’artista in relazione alle aspettative del pubblico.

Amelie von Wulffen Installation views - Exhibition paintings, Kunst Meran Merano Arte, 2017. Photo: Ivo Corrà © the artists and Kunst Meran Merano Arte 2017

Amelie von Wulffen – Installation views – Exhibition paintings, Kunst Meran Merano Arte, 2017. Photo: Ivo Corrà © the artists and Kunst Meran Merano Arte 2017

Charles Avery -  Installation views - Exhibition paintings, Kunst Meran Merano Arte, 2017. Photo: Ivo Corrà © the artists and Kunst Meran Merano Arte 2017

Charles Avery – Installation views – Exhibition paintings, Kunst Meran Merano Arte, 2017. Photo: Ivo Corrà © the artists and Kunst Meran Merano Arte 2017

Theme developed by TouchSize - Premium WordPress Themes and Websites