Danh Vo — MASSIMODECARLO, Milano

Le mostre di Danh Vo sono meccanismi processuali dove le relazioni - siano esse materiche, intellettuali o emotive - sono l’aspetto preponderante della sua ricerca.
20 Settembre 2021
Danh Vo – Installation view – Photo by Nicholas Ash – Courtesy MASSIMODECARLO

Un gioco di riflessi, continui rimandi, ripetizioni, echi formali. Le mostre di Danh Vo sono meccanismi processuali dove le relazioni – siano esse materiche, intellettuali o emotive – sono l’aspetto preponderante della sua ricerca. Pulsa sempre e comunque la sua storia personale, le sue relazioni più prossime (vedi la collaborazione con il padre), i suoi amici e i luoghi dove lavora. Ora vive a pochi chilometri da Berlino, a Güldenhof, in un grande spazio dove sperimenta e vede cresce il suo amato giardino. Squarci di questa sua passione li possiamo vedere in mostra alla galleria MASSIMODECARLO (Via Lombardia). Fotografati senza nessuna velleità che non sia quella di documentarli, questi sono i fiori del suo giardino, che ha seminato, curato e immortalato per essere esposti, incorniciati e catalogati per tipologia. Sotto ogni immagine, il nome del fiore scritto dal padre dell’artista, Phang Vo.
Accanto a queste fotografie, una lunga serie di sculture disseminate in tutti gli spazi della galleria. Marmo cristallino, granito giallo, marmo di Carrara e di Lasa (proveniente dalle cave in Alto Adige), granito sale e pepe, granito d’oro del Kashmir, marmo rosso di Verona: tanti e diversi, alcuni lavorati, altri lasciati grezzi, assemblati, tagliati a vivo, scolpiti. L’artista ha rovistato a piene mani in alcune cave di marmo recuperando scarti e pezzi inutilizzati per dargli nuova vita. Accanto a questi tocchi e lastre di marmo, Vo associa parti di sculture sempre di recupero: statue, pezzi di fontane, ma potrebbero essere acquasantiere, busti, lapide funerarie. L’artista le estrapola dalla loro genesi per ridarne un nuovo e visionario significato.

In ogni stanza della galleria, discrete scene teatrali dove i protagonisti sono quasi sempre di spalle. Nella prima stanza, dove inizia la mostra, una testa in marmo cristallino ci accoglie con il volto nascosto, così come  nascosto è il viso del calco di un Cristo di legno nella terza stanza, stretto tra due masselli di legno chiaro. Anche nella stanza adiacente compare un pezzo di busto che quasi non si percepisce visto che la parte riconoscibile, una schiena con drappeggio, è vicina alla parete. Questa forma di discrezione o palese nascondimento, altro non fanno che istigare la nostra curiosità nel ripensare volti, piedi, busti nella loro collocazione originale.

Gioco di riflessi o di sottrazioni, l’operazione combinatoria di Vo si mostra in modo evidente nella grande sala centrala dove concepisce un grande pavimento in marmo – che potrebbe anche essere installato a soffitto – dove compone uno bizzarro mosaico che lascia intravedere la forma di un busto stilizzato tra linee che si ripetono e rincorrono. In questo grande puzzle marmoreo l’artista installa un delfino dalla foggia rinascimentale con accanto ciò che rimane di un piede, poco distante un pezzo di marmo e una lastra con installata sopra una zucca in metallo. 

Danh Vo – Installation view – Photo by Nicholas Ash – Courtesy MASSIMODECARLO

Questa, assieme ad un grande vaso di vetro nell’ultima stanza che chiude, idealmente, il percorso espositivo, sono due oggetti casuali, o meglio: l’artista sembra voler contorcere ulteriormente le tante trame che si intrecciano lungo tutta la mostra. Questi due oggetti ‘casuali’ sono appoggiati sopra quelle che sono le sculture, dunque vien da chiedersi: quale elemento da senso a qualcos’altro. E’ il vaso che corrobora la sensatezza del piedistallo o viceversa?
Allo stesso modo possiamo osservare quelle sculture che, viste sotto un’altra prospettiva, posso diventare un tavolo, delle panche o dei semplici piedistalli: oggetti funzionali che proprio per questa loro ambiguità accrescono il loro valore di oggetti indecidibili, potenziali.

Sempre nella stanza principale, quella che è la chiave di volta dell’intera mostra, un’opera che per molti versi sintetizza la poetica dell’artista: la lettera che un missionario francese, Jean-Théophane Vénard, scrisse al padre nel 1861, prima di essere decapitato in seguito alle violenze anticristiane in Vietnam. La lettera è un’edizione in corso: Danh Vo ha chiesto al padre, che ha imparato la calligrafia ma non parla né francese né inglese, di riprodurre il testo fino alla sua morte (2.2.1861, 2009 – in corso). Dobbiamo specificare che la lettera ha un significato speciale per Phang Vo, dal momento che si era segretamente convertito dal confucianesimo al cattolicesimo negli anni ’60 per protesta per l’assassinio del presidente cattolico del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem. Circa 2.000 lettere sono state trascritte dal padre dell’artista. La lettera ha lo stesso prezzo dall’inizio del progetto, 300€.
Nel testo, il missionario paragona la sua decapitazione all’atto di raccogliere un fiore di primavere in un prato. Anziché addolorarsi per la sua inevitabile e violenta sorte, il religioso sembra voler consolare il padre con questa immagine di serenità e umile naturalezza. 
Ecco allora l’importanza, per l’artista, di tornare a osservare e curare la natura grazie alla coltivazione del suo giardino: luogo che per molti versi si pone in contrasto e sfida al sistema dell’arte, spesso debilitante e competitivo. Isola felice o via di fuga, è grazie a questa pratica che l’artista può liberarsi dalla tirannia dell’atto creativo, se concepito come pratica sistematica e speculativa.
Ultima serie di lavoro in mostra, un’omaggio al grande Michelangelo. L’artista ha riprodotto delle vecchi immagini di un catalogo del grande artista rinascimentale, concentrandosi sulle mani: elementi che, per la sua sensibilità, rappresentano il potere di trasformare la materiale. O ne immortalano l’inevitabile fragilità della carne, dipende dai punti di vista.

Danh Vo – Installation view – Photo by Nicholas Ash – Courtesy MASSIMODECARLO
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