“Dancing with myself” o la danza politica della pratica artistica

Concludere con che cosa queste rappresentazioni esprimano tutte insieme è difficile da stabilire, se non che il gioco critico sulla propria identità rende la figura dell’artista un prezioso faro sulle esperienze e ripercussioni di un mondo immerso in continui contrasti.
14 Maggio 2018
Urs Fischer - Dancing with myself -  Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Dancing with myself – Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Dancing with myself è la proposta di un progetto espositivo realizzato per la prima volta nel 2016 all’interno delle sale del Museum Folkwang di Essen, oggi ripresentato e adattato agli spazi di Punta della Dogana. Il percorso, ampliato con ulteriori pezzi della Collezione Pinault, restituisce una riflessione sul corpo e l’immagine dell’artista all’interno delle pratiche che si sono susseguite e affiancate tra il XIX e il XX secolo.
Fermandosi a ciò che ha preceduto l’era post-internet, la mostra si interroga su come l’immagine o il corpo dell’artista non siano tanto il soggetto dell’opera, ma lo strumento con cui affrontare le tematiche riguardano gli eventi e i problemi del proprio tempo. L’identità, l’io che incontriamo lungo le sale del progetto espositivo si avverte come “frammentato, mobile, né autoritario, né assertivo”, così come afferma Martin Bethenod – curatore della mostra con Florian Ebner -nelle pagine del catalogo. L’essere multiforme e mai stanco di questa materia prima che si trasforma in parola e azione assume il fine di sollevare innumerevoli volti.

La prima sala che ci accoglie mostra un dialogo tra Untitled (Blood) (1992) di Felix Gonzalez-Torres, l’autoritratto di Urs Fischer e quello di Alighiero & Boetti. Una volta aperta la tenda di perle rosse, partecipando fisicamente e in maniera empatica al dolore della malattia, scorgiamo, nell’esperire la visione di una cera che brucia lentamente, l’impossibilità di cristallizzare un ritratto in una forma fissa. Dirigendosi verso la punta troviamo nel foyer al centro dell’edificio il lavoro di Gilbert&George, il duo di artisti che ha fatto del proprio corpo una relazione simbiotica e una scultura vivente. I ritagli di immagini si accorpano in vetrate mosaicate in cui incontriamo il loro universo. Attorno al cubo di ferro Martin Kippenberger, con una serie di manifesti firmati da egli stesso e da Werner, istituisce una critica al valore di unicità dell’opera d’arte, David Hammons e Adel Abdessemed danno voce a oggetti modesti e ad azioni messe in scena per la strada. Path Free (1995-2000), performance del 1995, vede Hammons calciare ripetutamente un secchio lungo la strada, mentre Talk is cheap (2006) di Abdessemed ci illumina sui gesti di molti artisti americani degli anni settanta. Culmina questo piano di narrazione We (2010), il duplice autoritratto della propria effige di Maurizio Cattelan. Su un letto di morte le due rappresentazioni dell’artista ci parlano di due vite differenti. Non sono due gemelli infatti ma due figure diverse.

Urs Fischer - Dancing with myself -  Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Urs Fischer – Dancing with myself – Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Urs Fischer - Dancing with myself -  Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Urs Fischer – Dancing with myself – Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Al piano superiore due sale vengono dedicate al lavoro di Cindy Sherman, cui seguono forse anche per analogia i lavori di Urs Lüthi, Claude Cahun e Marcel Bascoulard. Se da un lato le serie Doll Clothes (1975), Bus Riders (1976-2000), Murder Mistery People (1976-2000) e Untitled Film Still (1977-1979) generano una cronistoria dei diversi soggetti interpretati da Sherman, evidenziando il dono dell’osservazione e la grande abilità recitativa che distingueva l’artista, dall’altro la schiettezza di Lüthi nei diversi ruoli interpretati viene affiancata alla scelta radicale di Claude Cahun che negli anni venti, oltre a risultare enigmatica, non perdeva tempo a sconcertare il pubblico.
No (1992) di Charles Ray nella stanza successiva offre un’immagine dell’immagine dell’artista. L’autoritratto iperrealista in forma di scultura di cera appare come una semplice istantanea eliminando lo sforzo processuale del dietro le quinte.
Dialogano poi tra loro i lavori di Robert Gober, John Coplans, Bruce Nauman, Kurt Kranz, Alina Szapocznikow e Arnulf Rainer. Si conclude il piano con a.k.a. (also known as) (2008-2009), la successione di volti accoppiati che dall’adolescenza all’età adulta ritraggono Roni Horn in continue permutazioni dell’io, in uno scarto che legge l’aberrazione di una versione fissa come impossibilità rappresentativa dell’artista.
Concludere con che cosa queste rappresentazioni esprimano tutte insieme è difficile da stabilire, se non che il gioco critico sulla propria identità rende la figura dell’artista un prezioso faro sulle esperienze e ripercussioni di un mondo immerso in continui contrasti.

Urs Fischer - Dancing with myself -  Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Urs Fischer – Dancing with myself – Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Urs Fischer - Dancing with myself -  Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Urs Fischer – Dancing with myself – Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Urs Fischer - Dancing with myself -  Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Urs Fischer – Dancing with myself – Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

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