Chiamata alle arti – Fare scuola | Intervista a ivan

Chiamata alle arti - Fare scuola è il progetto di ivan (Ivan Tresoldi, Milano 1981) per Sol Indiges. Arte pubblica a Pomezia tra mito e futuro, la rassegna di arte pubblica promossa dal Comune, in collaborazione con la Fondazione Pastificio Cerere, a cura di Marcello Smarrelli.
5 Dicembre 2021
IVAN – Performance – Dare La Parola – Pomezia 10/2021
IVAN – Il Verso Più Lungo Del Mondo – Pomezia 10/2021

In un “censimento ideale e creativo della fantasia, della parola, della poesia con studenti, insegnanti e familiari”, con Chiamata alle arti, seconda tappa del progetto Sol Indiges. Arte pubblica a Pomezia tra mito e futuro, promosso dal Comune, in collaborazione con la Fondazione Pastificio Cerere, a cura di Marcello Smarrelli, ivan ha attuato un dispositivo metodologico fatto di una serie di incontri partecipativi con gli studenti delle scuole e la comunità della città di Pomezia. Poesia di strada, arte pubblica e muralismo si incontrano così in un progetto di più ampio respiro, un’opera aperta, come la definisce l’artista, a sottolineare il potenziale di integrazione che fa dell’arte uno strumento al servizio di intere comunità.
Gli interventi di pittura murale hanno interessato le facciate della Scuola Publio Virgilio Marone, il campo sportivo con il muro ad esso adiacente della Scuola Orazio e le inferriate di entrambi gli istituti; la performance Il verso più lungo del mondo, ha invece trasformato il percorso dalla Scuola Publio Virgilio Marone alla Biblioteca comunale Ugo Tognazzi in un foglio bianco ininterrotto su cui ivan ha tracciato i versi di Dante e Virgilio rivendicando il potere della parola e, con essa, il diritto della poesia a farsi strada all’interno dello spazio urbano, entrando in contatto diretto con i luoghi e la popolazione. 

Segue l’intervista con l’artista 

AG: Chiamata alle arti. Fare scuola è il titolo del progetto che, nell’ambito di Sol Indiges, hai scelto di realizzare; come hai sviluppato il tema suggerito dal progetto curato da Marcello Smarrelli e come hai deciso di lavorare? Come si integrano pratica relazionale e modalità collaborative all’interno della tua ricerca e del tuo modo di intendere l’arte pubblica?

ivan:L’ingaggio è arrivato dalla Fondazione e il tema era predisposto, c’era una relazione tra la Fondazione e il Comune stesso nella direzione di andare a fare un lavoro che fosse espressione delle necessità del territorio di Pomezia in termini culturali e, abbiamo scoperto poi, soprattutto sociali. Roma è una città dove sono stato spesso, dove ho lavorato in passato, dove ho fatto da produttore, tra le altre cose, di Scala Mercalli. Il territorio intorno a Roma era certamente un territorio meno esplorato; con Pastificio avevo già collaborato in altre occasioni e la premessa alla costruzione di un progetto come Chiamata alle arti, così come per la costruzione di ogni dispositivo, formale e non formale, con chi è pubblico e soggetto/oggetto del fare arte e fare poesia, nasce in loco. Il vero 51% per me ce lo hanno il quartiere e questa sorta di abitazione comune che si mette a disposizione, in cui l’autore porta la propria dimensione autoriale e in cui le moltitudini portano, a loro volta, la loro dimensione sociale. È stato un lavoro che mi è stato proposto ma fino a quando non ho potuto affondare le mani nella pasta pometina il progetto non ha veramente preso una direzione specifica. Quando ho capito dov’ero, ho dialogato e compreso quali potessero essere gli strumenti necessari a innescare un dialogo con le comunità locali, li ho comunicati a Marcello (Smarrelli) e al Pastificio. Abbiamo avuto una dialettica rispetto agli interventi che sono poi stati realizzati, dando vita a un atto di costruzione collettiva dove ognuno dei soggetti ha un ruolo in campo, e io in un certo senso svolgo la funzione dell’allenatore. Ho scelto di fare Chiamata alle arti, che è un dispositivo che deve riguardare migliaia di persone all’interno di una città, e quindi ho preferito ai muri – che comunque abbiamo dipinto lasciando un’impronta muralista abbastanza evidente – lavorare con la pasta della popolazione. Sono abbastanza granitico nella mia progettualità, per me avrebbe avuto senso andare a Pomezia se le scuole fossero diventate uno strumento di attivazione di una dimensione più grande tra studenti e cittadini. Abbiamo concluso il progetto festanti in piazza l’ultimo giorno, Pomezia è una città che ha bisogno di arte per una direzione che sia ricostitutiva in termini identitari e coesivi; i muri, dipinti da soli, non servono a nulla, è la dimensione che metti dietro che li legittima, è più Pomezia che si è autocurata attraverso noi. Lo scopo è stato raggiunto, si è trattato di un processo lento perché abbiamo dovuto riquadrare tutta la produzione, ma ha raggiunto il suo compimento, è un processo in divenire, non si è trattato solo dipingere un muro o fare Il verso più lungo del mondo: quando ti trovi a lavorare con una dimensione che è quella dell’invisibile è un processo che possiede una sua naturale e necessaria entropia, è un processo che attui ma che non governi. Lo schema è quello di Chiamata alle arti, che ho già proposto a Lavagna, alla Fondazione Casoli a Moie, è uno schema di ingaggio, una traccia metodologica che ara il tessuto sociale per proporre poi gli interventi di arte pubblica in maniera efficace. 

IVAN – Scuola Orazio Campo Sportivo, Pomezia 10/2021

A tal proposito, mi racconteresti della performance Il verso più lungo del mondo? Quali sono state le fasi preliminari attraverso cui sei entrato in contatto con i partecipanti?

Il verso più lungo del mondo è la fioritura dell’aratura in un certo senso, nessuno legge cosa io scrivo, è un atto di scrittura estemporanea che nasce guardandomi intorno e, con il momento di piazza che si è creato con questi ragazzi, serve idealmente a creare la parata di Chiamata alle arti, che è un censimento naturale e collettivo della fantasia di una comunità. 

AG: Il tuo intervento a Pomezia ha subito uno slittamento dovuto all’emergenza pandemica: questo ha modificato il progetto iniziale? Se sì, in che modo?

Il progetto non ha subito uno slittamento per i motivi a cui fai riferimento perché si tratta di un processo aperto, è un’opera aperta. Chiaramente abbiamo avuto delle riquadrature di produzione sul periodo, ma non si erano attivate grandi fenomenologie o grandi energie. Io lavoro sulla pasta umana, mi amplifico grazie alla socialità, in questo ne riva anche della qualità della mia opera, sarebbe stato impensabile fare un intervento che non implicasse la presenza di persone. È un approccio molto peculiare per il mio lavoro, mi interessa la quantità dell’amplificazione che si produce. Il calendario di produzione – che seguo sempre in prima persona, perché come sai mi occupo anche di produzione – era già fissato e ho deciso di riprogrammarlo anche in base alle necessità del progetto stesso.

AG: Ci sarà una documentazione scritta/fotografica del progetto?

Sono interventi che si perderanno i nostri, il muralismo ha un lato fragile che spesso si fa finta di non vedere. Ho una dimensione molto reale, anche nei termini libertari del qui e ora, e lascio il dispositivo di funzione alle persone. C’è poi tutto il corredo di produzione, gli incartamenti tecnici, anche perché le direzioni di professionalizzazione sull’arte urbana e la street art le abbiamo protocollate in studio, in Artkademy: il mio direttore artistico è Simone Pallotta, le abbiamo scritte insieme; del progetto rimane il corredo di come abbiamo lavorato, degli spunti e approfondimenti tematici insieme ad alcune foto. 

AG: Cosa significa fare arte pubblica, cosa significa farla oggi? 

La scrittura, per come l’ho prodotta e per come la produco, è la scrittura illegale delle strade, autogestita e autorganizzata. L’arte è uno strumento, non è il soggetto. Io lavoro al 51% nei quartieri, ho dipinto al Trullo, al Corviale di Roma. L’arte è sempre stata pubblica, è dagli ultimi cento anni che la percezione è mutata – quindi un periodo infinitesimale rispetto alla storia sociale dell’umanità. I muri venivano dipinti perché avevano una funzione pubblica, strutture e installazioni svolgevano una funzione religiosa e pubblica, così come la poesia, e gli autori venivano qualificati dal loro pubblico. Io non ho inventato la poesia di strada, la poesia in strada è sempre esistita. Se faccio qualcosa a Pomezia, come per esempio raccogliere migliaia di parole, è Pomezia stessa che si libera da sé, noi siamo gli strumenti che devono permettere alcuni processi. Faccio l’arte con gli ingredienti con cui ci si è sempre confrontati. Nei quartieri vado con gli psicologici sociali, per un periodo denso, a fare complessità: nessuna superficie può essere scritta, dipinta, installata quando dietro non c’è la storia, in quel caso rimane soltanto una superficie. L’arte si occupa di luoghi del presente verso il futuro o di luoghi che raccontano il passato verso il futuro. 

IVAN – Scuola Orazio Cancellata – Pomezia 10/2021
IVAN – Scuola Orazio Muri- Pomezia 10/2021
Theme developed by TouchSize - Premium WordPress Themes and Websites