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bruno + Fujiyama | Intervista con Stefano Mudu

Intervista di Eleonora De Beni — Tornano gli appuntamenti del venerdì con le serate di presentazione di alcuni degli ultimi progetti editoriali realizzati dalla casa editrice bruno.Il primo a misurarsi col pubblico è “Altrove. New Fiction” edito da Stefano Mudu....

Intervista di Eleonora De Beni —

Tornano gli appuntamenti del venerdì con le serate di presentazione di alcuni degli ultimi progetti editoriali realizzati dalla casa editrice bruno.
Il primo a misurarsi col pubblico è “Altrove. New Fiction” edito da Stefano Mudu. A colloquiare con lui Silvia Casini, Stefano Coletto, Giulio Squillacciotti e Angela Vettese.

Abbiamo posto alcune domande a Stefano Mudu.

Eleonora De Beni:  Il libro “Altrove. New Fiction” si apre con una lettera d’intenti di Marco Serraglio, direttore di Cescot Veneto, nella quale si chiarisce la volontà di terminare il progetto “Altrove” con una pubblicazione a più mani “che esplorasse questo scenario di ibridazione socioculturale raccogliendo la testimonianza dei ricercatori che ha richiamato in laguna.” Per te cosa ha significato questo libro?

Stefano Mudu: “Altrove. New Fiction” è il risultato di un lavoro di ricerca condotto all’Università IUAV di Venezia nell’estate 2019. Organizzato da Cescot Veneto e coordinato scientificamente dalla Professoressa Angela Vettese, il progetto “Altrove” ha radunato quattro figure di spicco del panorama artistico contemporaneo incoraggiando un loro confronto con il territorio lagunare. Durante i mesi di residenza, Silvia Casini, Gediminas e Nomeda Urbonas, Amalia Ulman e Giulio Squillacciotti, hanno sviluppato (o approfondito) progetti estremamente diversi in contenuti e prospettive mentre, a conclusione dei loro lavori, io ho proposto di insistere sull’eterogeneità delle loro proposte e ordinarle sotto un unico “concetto ombrello”: la finzione. Credo che “New Fiction” sia ora un oggetto denso: un libro che non fornisce risultati certi e che, come un piccolo sussidiario poco ortodosso, propone prospettive alternative. Pur riconoscendo a ogni autore una vocazione tematica, il libro ne affronta l’urgenza secondo una comune traiettoria sperimentale e infine raggiunge nuove frontiere che, anche quando utopiche, si presentano come buoni luoghi almeno per l’immaginazione e il confronto. La questione è per un verso paradossale, se si conta che tutti i contributi sono il risultato di una residenza in ambito accademico, ma sicuramente consapevole, dal momento che la mia intenzione come editor è sempre stata quella di costruire un progetto versatile.

EDB: Uno dei temi trattati è il rapporto simbiotico tra differenti discipline (progetto di ricerca di Silvia Casini) e tra differenti forme di vita (progetto di ricerca di Gediminas e Nomeda Urbonas). Si definisce la società odierna in trasformazione, propensa a produrre e crescere in modo solidale, un forum aperto all’incontro spontaneo fra le persone che discutono di argomenti d’interesse culturale. Utopia o realtà?

SM: Una delle motivazioni che mi ha spinto a riordinare i contenuti sotto il termine “New Fiction” ha coinciso con l’interesse di lavorare nel regime del “come se”, della probabilità, della possibilità. Una modalità che, pur ricorrente in tutti gli ambiti della conoscenza (dalla scienza all’antropologia, dall’etnografia all’archeologia) assume in ogni disciplina ruoli e pesi specifici differenti, anche se spesso marginali. Tra le intenzioni principali del libro c’è sempre stata la necessità di riconsegnare importanza e centralità all’immaginazione riconoscendo nelle sue narrazioni lo strumento fondamentale per alimentare tante, tra le più urgenti, tematiche contemporanee. “Altrove. New Fiction” ha potuto concentrarsi sul rapporto arte-scienza, uomo-natura, pubblico-privato, ma penso al post-umaniesmo, all’antispecismo, ai femminismi, alle teorie queer o agli studi post-coloniali quando dico che oggi concetti come utopia e finzione dovrebbero essere utilizzati per ribaltare i ruoli gerarchici di un’ermeneutica di parte e ambire a risvolti futuribili, anticipatori e interpreti di nuovi modi possibili. Le arti visive hanno sempre ricoperto questo ruolo: hanno spesso avuto il privilegio di recepire l’urgenza di panorami complessi impostando metodi alternativi pronti ad aprirsi nuovi domini dell’immaginario. Nell’ambito della trasformazione cui ti riferisci, ancora una volta, all’arte e ai suoi professionisti è richiesto di guardare all’utopia “come se” fosse il luogo privilegiato per aprire nuove (e più reali) prospettive.

EDB: Silvia Casini fa un’importante dichiarazione all’interno del suo intervento, affermando come “l’arte non sia necessariamente accessoria alla scienza ma piuttosto complementare ed essenziale per una società più equilibrata e coesa.” Credi che in Italia, o per lo meno a Venezia, questa cosa possa prendere piede?

SM: Il concetto di scientificità – anche quando abbinato alle più tradizionali scienze formali o naturali (matematica e statistica come biologia, astrologia o chimica) – permette di descrivere un sistema di conoscenze al contempo rigoroso e flessibile: in grado di gestire l’assoluta fiducia per i suoi dati con un certo grado di sperimentazione. Sia a livello di metodo che di contenuto, l’arte cerca sempre più spesso il confronto con queste discipline e le è concesso di intervenire con margini anche ampi, quando controllati da progetti illuminati e lungimiranti. Credo che la buona riuscita di una sinergia arte-scienza passi attraverso incontri guidati e monitorati che, ancora una volta nel regime del “come se”, procedano alla ricerca di una metodologia comune mai standardizzata.
Sia per vocazione territoriale che per urgenze contestuali, Venezia si presta a diventare un osservatorio privilegiato per pratiche virtuose e interessate. Da anni lo dimostrano le attività culturali dell’Ocean Space e presto un nuovo corso di laurea magistrale in “Environmental Humanities” all’Università di Ca’Foscari. Certo la strada è lunga e ancora disarticolata, ma c’è da insistere perché queste realtà possano crescere in numero e ottenere i giusti riscontri dalle amministrazioni locali.

EDB: Si parla spesso del mezzo all’interno della pubblicazione come anche nella tua ricerca. In Spazi Critici. I luoghi della scrittura d’arte contemporanea. parli di una “materializzazione del medium nella smaterializzazione dell’arte” dando fondamentale importanza alla forma scritta e stampata. “Altrove. New Fiction” è un prodotto eterogeneo, non soltanto per quanto riguarda i temi trattati ma anche le differenti tipologie di stile di scrittura. Da lettrice è stato divertente e stimolante affrontare un libro che rispecchia a livello grafico la densità di un testo predisponendo il lettore alla lettura.

SM: La flessibilità dei contenuti, la gestione della loro apparizione e il dinamismo dell’impianto grafico credo (e spero) rendano “New Fiction” un prodotto editoriale in grado di raggiungere più sguardi e intenzioni.
Per ritornare al paradosso iniziale, infatti, ho lavorato con estrema consapevolezza affinché il progetto editoriale si distaccasse dai classici connotati di una pubblicazione accademica e raggiungesse un pubblico ampio e variegato. Assecondando le ricerche che mi hanno portato alla pubblicazione di Spazi Critici. I luoghi della scrittura d’arte contemporanea (Mimesis, 2018), ho creduto che, a prescindere dalle riflessioni teoriche, l’ordine di apparizione dei contributi avrebbe dovuto essere conforme alle finalità del libro facendone un medium occorrente per incursioni e sguardi sempre differenti.
Non solo. Insistendo sulle loro specifiche attitudini, ogni autore è approdato autonomamente a una forma testuale differente e incline al suo ruolo professionale. Mi è sembrato interessante proporre che la costruzione del libro insistesse su questo aspetto ed è per questo motivo che, dal più ortodosso saggio accademico, l’ordine procede per composizioni testuali sempre più libere fino ad approdare al contributo più artistico.

EDB: Chi sono questi tre personaggi che siglano il libro?

SM: L’unico contributo visivo del libro è rappresentato dalle tre firme che siglano la fine della sequenza di contributi quanto quella (speriamo solo distopica) dell’Unione Europea. Sono quelle di Amalia, Lukas e Raymond, i rappresentanti degli ultimi tre paesi ancora legati al trattato di Maastricht (1992) e che, nel lavoro di Giulio Squillacciotti, si incontrano per l’ultima volta in una strana seduta politico-terapeutica.
“What Has Left Since We Left” rappresenta pienamente la finzione cui approda l’arte nel regime del “come se” e volevo fosse l’ultima apparizione di un incedere che, dal naturale rigore scientifico, approda alla più immaginifica libertà disciplinare. Le sigle del libro si trovano alla fine dei testi ma quest’ultima coincide con il centro del volume e non con la quarta di copertina.
Assecondando l’esigenza della doppia lingua e volendo raggiungere una versatilità del medium sul filo del dinamismo, il libro è un oggetto reverse i cui testi procedono speculari fino a incontrarsi al centro, con le firme, appunto, che ne sanciscono la fine.

EDB: Pensi potrebbe essere interessante fare un “Altrove. New Fiction 2”?

SM:Credo sarebbe necessario dare a “New Fiction” la possibilità di strutturarsi secondo un’identità, una continuità e un respiro ulteriore. Mi sento di poter dire che questo esperimento editoriale, più o meno riuscito, abbia solo abbozzato le direzioni della finzione: un “Altrove” che spera di accogliere più “New Fictions” possibili.
D’altronde il concetto di utopia continua a descrivere una serie di orientamenti teorici e pratici che, per ogni disciplina, coincidono spesso con l’immagine di un futuro troppo distante dal presente o che, in quest’ultimo, si manifesta nella soggettività di gruppi umani piuttosto isolati. Servirebbe smascherarle per accorciare il divario con la realtà.