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bruno + Fujiyama | Centrale Fies presenta Loc. Fies 1.

Intervista di Eleonora De Beni — All’interno della suggestiva centrale idroelettrica di inizio Novecento ancora in parte funzionante, nei pressi di Dro, è stato avviato un centro di residenza e produzione delle arti performative contemporanee. Dopo oltre vent’anni di attività...

Intervista di Eleonora De Beni —

All’interno della suggestiva centrale idroelettrica di inizio Novecento ancora in parte funzionante, nei pressi di Dro, è stato avviato un centro di residenza e produzione delle arti performative contemporanee. Dopo oltre vent’anni di attività – iniziato nel 1999 da Barbara Boninsegna e Dino Sommadossi con la Cooperativa il Gaviale sull’esperienza del festival drodesera (nato nel 1980) – Centrale Fies Art work Space ha intrapreso anche un’iniziativa editoriale.Tra il 2019 e il 2020 è stata prodotta una collana di nome Loc. Fies 1. come testimonianza di esperienze artistiche e di ricerca che spaziano dalla filosofia politica al design, dall’architettura a ideali laboratori nomadici, dall’attivismo politico alla performance art. 

Cogliendo l’occasione dell’ultima presentazione organizzata dalla casa editrice bruno per bruno+fujiyama, a Venezia, abbiamo posto qualche domanda a Virginia Sommadossi, responsabile comunicazione e identità visiva di Centrale Fies e agli autori dei quattro libri prodotti: Luca Ruali,Roberta Da Soller, Filippo Andreatta e Mali Weil.

Eleonora De Beni: Centrale Fies si definisce una palestra, dove viene allenato collettivamente il pensiero, l’azione e l’adesso, dove le cose accadono. Quali sono state le ragioni che ti hanno portato a ridare vita ad un luogo con un’identità già definita? 

Virginia Sommadossi: Alla base ci sono il pensiero divergente e la capacità di immaginare un edificio, in parte abbandonato e dunque libero, come luogo perfetto per un progetto esistente e complesso. Centrale Fies nasce per farsi da subito spazio, in un ambiente dove poter creare, in tempi e modi non strettamente legati al mercato artistico esterno. La sua identità è mutevole nella forma, ma una roccia nelle politiche che pratica e promuove, è da sempre ridisegnata dai progetti e dalle azioni concrete che ne nutrono la complessità. Si tratta di una struttura dedicata a tutto quello che precede l’incontro col pubblico: ricerca, studio e confronto. 

EDB: Quando è nata, e soprattutto da cosa, l’idea di sviluppare la collana editoriale Loc. Fies 1? A quali bisogni intendeva sopperire? 

VS: Loc Fies 1 è uno spazio in cui pensiero e ricerca si intrecciano tra loro continuamente, diventano riflessione progressiva sul mondo e sulle pratiche artistiche, incidono e si rimescolano nell’azione culturale del luogo/ambito che le accoglie e le potenzia. Abbiamo voluto che tutto questo divenisse un bene accessibile anche a chi non vive Fies tutti i giorni. La libertà degli autori e delle autrici di declinare ogni volume nei temi e nei modi, in dialogo con la casa editrice bruno, è stata elemento fondante. Questo ha preservato l’eterogeneità di ogni singola ricerca nel traslarsi da opera performative a docu-libro.

EDB: Può una collana editoriale raccontare l’esperienza e l’essenza della performance?

VS: Questo non lo so, ma forse può aprire spazi caotici, e dunque prolifici, su questo tema. Può sicuramente raccontare l’esperienza e l’essenza di un luogo alle prese con la riflessione sulle pratiche performative e con questo racconto, così formalizzato, pubblico e consultabile, può costituire un ulteriore tassello della riflessione collettiva sulla performance ispirando altri spazi di pensiero e di azione.

Luca Ruali, #01 Il Paese Nero —

EDB: Loc. Fies 1 nasce da un dialogo tra te, Virginia Sommadossi e Filippo Andreatta. Quali sono state le urgenze di allora e quali potrebbero essere le attuali?

Luca Ruali: Avvicinandosi al lavoro della Centrale è evidente come sia complesso generare contenuti oltre la continuità delle produzioni artistiche; ho una prossimità con la ricerca editoriale e ho suggerito un formato. Sarebbe interessante proseguire la produzione editoriale, sarebbe più interessante aumentare il dialogo attorno a questi episodi.

EDB:Il paese nero è la storia di un territorio orfano, un insieme di radure, alberi solitari e rovine, scenari che non sono le quinte delle azioni umane, ma gli autori che le provocano. Si parla di paesaggio-autore all’interno del quale l’uomo è agito e non più agente, aperto alla mutazione che avviene nella relazione con il non umano. A riprova del fatto che l’arte narrativa non appartiene solo alle persone ma anche ai luoghi, quali sono le forme territoriali in grado di generare e produrre storie?

LR: Gli elementi e le relazioni descritte ne Il paese nero sono stati identificati a partire da ricognizioni sull’Appennino, per poi ritrovarli nelle città, dove la loro azione è differente e perde i caratteri di arcaicità che sopravvivono in condizioni naturali. L’esperienza dell’abbandono urbano è poco descritta, fino a quando periodicamente un edificio rinnova la propria seduzione diventando oggetto di operazioni di recupero o poco prima del suo abbattimento. Prima di questi eventi e anche per decenni, gli edifici abbandonati in città e appena fuori accolgono comunità marginali che li usano in modo nascosto e imprevisto. In parallelo possono essere il teatro di rinaturalizzazioni con caratteristiche molto differenti.

EDB: Ancora molto attuale è il problema della trasposizione testuale della performance. Come dare al libro la forma dei concetti? Le difficoltà che si incontrano nella fase di sviluppo sono numerose. 

LR: Il teatro e le arti performative sono un campo straordinariamente vuoto a livello critico, condizione che consente qualche superficialità. Le informazioni che è possibile ottenere su produzioni anche recenti non superano il comunicato stampa. Rispetto a questa assenza preferisco un ambiente critico più denso e aggressivo.

Roberta Da Soller, #02 Live Works —

EDB: Live Works si definisce come terreno di sperimentazione, un viaggio fra le pieghe del reale attraverso l’espansione del performativo, un momento in cui qualcosa che era già in atto veniva accolto e si rimescolava, per poi proseguire nel mondo. Cosa si intende per espansione del concetto di performativo? 

Roberta Da Soller: Si intende letteralmente un ampliamento, un’estensione o se vogliamo una frammentazione centrifuga di discorsi che si sono avuti negli ultimi anni attorno a questo concetto. La performance artistica, di cui noi ci occupiamo, viaggia su di un terreno sconfinato di sperimentazione che deborda spesso in altri territori che nutre e di cui si nutre. Gli studi sulle politiche della strada e sulla politica della performatività del genere di Judith Butler sono esattamente gli strumenti, teorici, che hanno permesso di comprendere sempre più in profondità come il performativo funzioni e quindi di capirne anche i poteri. 

EDB: La finzione è il fil rouge che unisce i prodotti realizzati all’interno della residenza di Live Works. Come definiresti questa capacità di creare nuovi mondi e che importanza ha avuto all’interno del progetto?

RDS: La fiction è un elemento costitutivo del lavoro performativo e questa capacità di insinuare inframondi è un elemento interessante, perchè spesso ci fornisce delle indicazioni politicamente rilevanti. La fiction è stata per molto tempo parte di un binomio che la vedeva versus un reale, inteso come verità, natura, visibile e per tanto inadatta alle cose del mondo. Ma non è esattamente così: quella che noi chiamiamo finzione è, innanzitutto, un grado diverso della nostra relazione corporea con il mondo. Enrico Pitozzi, definisce l’invisibilità come “una saldatura tra ciò che si vede e ciò che non è dato”, e non tra ciò che non esiste o che è falso.  Alcuni dei lavori passati attraverso la residenza hanno avuto questa capacità di consegnarci un vago ma perdurante senso di qualcosa di inespresso, qualcosa sulla punta della lingua o, diversamente, di un dejavù. 

EDB: In Live Works emerge un’idea di pubblico come insieme di soggetti fidati immersi in uno spazio di condivisione. Si tiene conto della vulnerabilità di queste persone?

RDS: Una performance ha senza dubbio una sua struttura per poter essere chiamata tale: il tempo, la premeditazione, anche l’osservazione, il non essere in soliloquio, la distingue da un’azione quotidiana. La performance può essere osservata, fruita, e non è detto che i ruoli rimangano fissi, che sia l’osservatore in una situazione di vulnerabilità. Con Live Works si è spesso tenuto conto di situazioni di vulnerabiltà, ma più da una prospettiva femminista. La cura è una pratica che è circolata molto in questi anni all’interno delle residenze, e quando questa stessa pratica è incorporata nel tuo stare al mondo come artista, come persona, quello che produci è già costellato di domande importanti sulla relazione che stai per avere. 

Filippo Andreatta, #03 Little Fun Palace – OHT

EDB: Little Fun Palace, roulotte in movimento all’interno della quale sono organizzati simposi, dialoghi, balli e ogni forma di spontaneità possibile, pone l’attenzione sull’incrocio spontaneo fra le persone. Si avverte la necessità di aprirsi verso l’altro, di favorirne l’incontro, di fare assieme. Cosa spinge l’uomo alla commistione? E come si raggiunge la sintonia complessiva?

Filippo Andreatta: La roulotte è stata immaginata come un parassita ai margini delle istituzioni culturali. Attraverso una roulotte abbiamo fatto emergere gli spazi periferici delle istituzioni con cui abbiamo collaborato: musei, festival, università e teatri. Periferie che non sempre sono state percepite come cruciali, che spesso sono state nascoste o ignorate dalle loro istituzioni. Direi che è lì, ai margini, che le contraddizioni di un luogo, di uno spazio, di un’istituzione emergono. E sono proprio quelle contraddizioni che vanno mostrate, parassitate, senza alcun bisogno di dare unità ma, anzi, volendo segnalare che questi spazi sono in contraddizione fra loro, sono spazi agonistici, conflittuali. Anziché che è proprio la loro natura contradditoria a renderli pubblici, che non c’è bisogno di omogeneizzare questi spazi, di renderli armonici, non c’è bisogno di polarizzare le diversità ma di renderle visibili, di dare spazio all’antinomia.

EDB: Gediminas e Nomeda Urbonas, artisti lituani, dicono che lo spazio problematico diventa un modello perfetto per riflettere su posizioni complesse e riconsiderare le possibilità di riorganizzare il nostro rapporto col mondo.

FA: Mi sembra un concetto accostabile a quanto fatto con LFP. Infatti, proprio grazie alla volontà di approfondire posizioni più complesse e fare un affondo sul rapporto col mondo, inteso innanzitutto come spazio, abbiamo trasformato la roulotte in una Scuola Nomadica che si chiede “come lo spazio produce realtà?” e come un determinato luogo, nel nostro caso le Alpi, possa influenzare la stesura di un programma artistico e discorsivo. In fondo è come se il luogo in cui ci troviamo disegnasse nuove forme di pensiero e di percezione della realtà. 

EDB: Negli universi urbani la dimensione pubblica è stata schiacciata da quella privata, si esplora la hybris del genere umano ma anche la sua fragilità. La decostruzione dell’antropocentrismo deriva da un senso di responsabilità o di precauzione?

FA: Credo più da un sentimento d’ineluttabilità. Credo sia ineluttabile ormai che l’antropocene abbia accelerato irreversibilmente la crisi climatica e quindi non si possa più far finta di niente. Che gli effetti negativi saranno innanzitutto visibili sulle persone che l’hanno provocata. Un contrappasso della hybris umana di cui parli. Quindi non vedo né responsabilità, né precauzione, ma solo ineluttabilità; non si può più fingere che vada tutto bene.

Mali Weil, #04 The Shining Reverie of Unruly Objects —

EDB: Quali sono le ragioni che ti hanno spinto a produrre oggetti con un’autonomia performativa? Cosa sono gli oggetti indocili di cui si parla nel libro?

Mali Weil: Il motore che mi spinge a ideare e diffondere oggetti performativi è la volontà di uscire dal mondo dell’arte e dialogare con la realtà. Il motore che mi spinge a ideare e diffondere oggetti performativi è il medesimo, ovvero uscire dalla bolla dell’arte o del design, e irradiare possibilità narrative, performative, contravvenire alle storie politiche, creare nodi di possibilità e posizioni indocili che, spettatori (nel caso di performance) o visitatori (negli altri contesti), possano poi portare con sé, nella loro vita quotidiana.
Offrendo allo stesso tempo una possibilità di vita a questi oggetti, ma venendone anche investiti, come portatori delle loro narrazioni e come responsabili delle loro complicate implicazioni. Indocili in questo senso.

EDB: Esiste una reale differenza tra cosa e oggetto, nel senso in cui è l’oggetto a ricoprire una posizione specifica in un sistema e la cosa a sfuggire dalla classificazione?

MW:Pensiamo a quel paio di Nike cui non riusciamo a rinunciare o ad un vecchio telefono che non vogliamo buttare o ad una riproduzione di una statua votiva in terracotta trovata ad un mercatino, tutte cose con cui ci confrontiamo attivamente a livello fisico e percettivo, ma anche narrativo, etico, politico.
A me personalmente questa gradazione, dove le cose sono oggetti con una volontà politica, con loro narrazioni appiccicose e indocili, non categorizzabili come storie commerciali e nemmeno come memorie personali, ecco questa gradazione multispecifica m’interessa. Trovo interessante reimpaginare la questione tra cose e oggetti come oggetti che rimangono cose, senza bisogno di promozioni ontologiche, che ad ogni modo entrano in relazione con altre cose, cose che si spostano, dialogano, o intimano le persone a diventare responsabili di alcune azioni.
Cose che rendono noi, performer di altre narrative. 

EDB: È assai importante la relazione che ha l’opera con il suo contesto di presentazione. Il design si afferma come dinamica plurale attraverso la quale lo spettatore può esprimere il proprio sentire, divenendo sequenza narrativa personale. Nel testo The Shining Reverie si afferma che cruciale è far parlare colui che si prende in carico l’oggetto, divenendo narratore, performer. L’oggetto a questo punto si rinnova in strumento?

MW:Per spiegare pienamente il valore che il design riveste nella pratica di Mali Weil così come l’accezione in cui uso il termine oggetto performativo, devo rifarmi alla mia idea di performance. Si tratta di una forma espansa, che vuole così ossessivamente permeare il reale fuori dai limiti spazio-temporali della cornice ad essa dedicata, tanto da accettare di perdere quasi ogni forma di spettacolarizzazione.
L’oggetto indocile ha sempre difeso la propria natura di strumento insita nella sua funzione d’uso. In più, è stato progettato nelle sue componenti materiali ed estetiche anche per rispondere ad una funzione simbolica, che attiva a sua volta nell’utilizzatore un gesto politico.
Tutto questo tenendosi stretta la propria funzionalità che lo situa con maggior agio nel mondo del design, piuttosto che in quello dell’arte. Tale oggetto (o cosa nda) trova la sua collocazione ideale nella performance relazionale, luogo di investitura del visitatore che si prende in carico l’oggetto e la responsabilità della sua narrazione. L’oggetto si fa così ancora una volta strumento nel trasmutare l’identità di chi lo incontra.


Loc. Fies 1 – N 45°59’ 11.216 – E 10°55’ 36.775
E’ la prima collana editoriale di Centrale Fies composta da quattro pubblicazioni, dedicate a quattro progetti:
Il paese nero di Luca Ruali,
Live Works a cura di Roberta Da Soller con Simone Frangi,
Little Fun Palace a cura di Filippo Andreatta e Salvatore Peluso,
The shining reverie of unruly objects di Mali Weil – Lorenzo Facchinelli, Mara Ferrieri, Elisa Di Liberato.