A brick is a brick is a brick… | Elisabetta Benassi alla Collezione Maramotti

Upon these bricks; Bricks a hot favourite; The bricks pull the crowds; This Bricks could build a bad reputation; A brick is a brick is a brick...; My wall is going cheap; Gallery bricks silence...
29 Maggio 2017

La mostra comincia con un’installazione di forte impatto. Un grande oggetto sbuffante in penombra. Metallico, giganteggia davanti a noi. Non so se l’intento dell’artista fosse quello di piazzare, proprio nella prima stanza, una presenza minacciosa e inquietante che, come un custode silente, ci accoglie. Questo grande e pesante oggetto, altro non è che un macchinario utilizzato per stirare indumenti in grande quantità: vapore, ombra e riflessi, fanno di questo object trouvé un’opera fortemente suggestiva.
“Prosperity” manifesta uno dei punti cardine della mostra di Elisabetta Benassi, It starts with the firing ospitata fino al 17 settembre 2017 alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia.

L’artista risveglia due passati – quello di una vicenda legata ad un’opera di Carl Andre e quello legato alla storia della fabbrica Max Mara – intrecciandoli in un percorso espositivo fatto a tappe: in ogni stanza della mostra alla Collezione, l’artista ha installato un’opera-racconto.
Dopo la prima stanza con la macchina da stiro automatizzata, la grande installazione “Zeitnot”: una costruzione elementare composta da cinquemila mattoni refrattari inglesi. Con quest’opera emerge il secondo passato, una vicenda che l’artista rispolvera legata a Carl Andre. Nel 1966 l’artista americano ha ideato Equivalent VIII – comunemente nota come The Bricks – un’installazione composta da 120 mattoni posizionati su due file sovrapposte a formare un rettangolo. Dopo che la Tate Gallery di Londra, cinque anni dopo, ha acquistato l’opera per 2.297 sterline, è scoppiato un ‘caso’: molta parte dell’opinione pubblicare, sollecitata dalla stampa, ha contestato questa acquisizione come uno sperpero di danaro, oltre che un spesa ridicola per un’istituzione pubblica.

“Zeitnot” sembra ostentare all’ennesima potenza l’opera di Andre. Il fatto di essere composta da 5000 mattoni e di poter accedere al suo interno, Zeitnot diventa un monumento – dunque un’ostentazione – all’assurdità del suo essere un’opera d’arte. In questo lavoro, come il precedente, la Benassi punta il dito sulla legittimità dell’ ‘essere’ arte, ne mina lo statuto e ne affronta la contraddittorietà. A questa costruzione sembra fare eco l’architettonica della stessa Collezione, anch’essa formata da mattoni faccia vista. A brick is a brick is a brick…

Elisabetta Benassi, Prosperity, 2017, macchina da stiro automatizzata, vapore, 157 x 100 x 120 cm Courtesy Collezione Maramotti © Elisabetta Benassi -  Ph. Andrea Rossetti

Elisabetta Benassi, Prosperity, 2017, macchina da stiro automatizzata, vapore, 157 x 100 x 120 cm Courtesy Collezione Maramotti © Elisabetta Benassi – Ph. Andrea Rossetti


Anche nella ‘tappa’ successiva sono presenti dei mattoni, questa volta utilizzati per la costruzione di un muro. Una mezza parete divide lo spazio e da essa si svolge una serie di tappeti di diversa fattura e dimensione. In quest’opera, Shadow work, interno ed esterno sembra incontrarsi in questo elemento architettonico che diventa, per imponenza, una commemorazione all’instabilità: la solidità del muro è minata dai tappeti che a loro volta diventano oggetti ‘snaturati’.

Nella terza stanza entriamo dal vivo della mostra. La Benassi installa una serie di manifesti – che troviamo sia disseminati nella città di Reggio Emilia, che raccolti nel libro pubblicato in occasione della mostra (Editore NERO, Roma) – che riprendono i titoli dei giornali originali pubblicati nel periodo che seguì l’acquisizione della Tate dell’opera di Carl Andre.
Upon these bricks; Bricks a hot favourite; The bricks pull the crowds; This Bricks could build a bad reputation; A brick is a brick is a brick…; My wall is going cheap; Gallery bricks silence; Money crisis and the art Bricks; Man behind the bricks; The bricks are useful; Art may come and art may go but a brick is a brick for Ever. Bricks are for homes!
Pagina dopo pagina, viene quasi istintivo fare un gioco, sostituendo alla parola brick, art: Upon these arts; Arts a hot favourite; The arts pull the crowds; This Arts could build a bad reputation; Art is art is art …; Man behind art; Art is useful…

L’ultima stanza ospita delle opere che definirei quasi “oltraggiose”: su una parete l’artista installa delle fasce di tessuto di scarto – sottolineo che siamo in un’ex fabbrica di capi di abbigliamento – di fronte ad una colonna di mattoni in bronzo con la scritta ‘empire’. Sopra e sotto, schiacciati dal peso dei blocchi in metallo, un paio di guanti da lavoro. Il significato è evidente o, per lo meno, il messaggio sembra essere chiaro: il peso del potere sovrasta – o calpesta – la fragilità umana.
Attraversate le cinque stanze, si prova una vaga tristezza o, meglio, amarezza. Tecnica, progettualità, evoluzione, l’arte stessa, sembra non dare né conforto né rifugio. Se c’è dell’ironia in queste opere, è schiacciata dalla pesantezza del concetto stesso di lavoro: operar faticando, afferrare, volgere il desiderio, la volontà, l’intento.. che è anche dire ottenere, impossessarsi. Ironia vuole che si utilizzi, al posto di opera, lavoro.

Elisabetta Benassi, Shadow work, 2017, mattoni refrattari inglesi, tappeti orientali, 103 x 550 x 435 cm, Courtesy Collezione Maramotti © Elisabetta Benassi - Ph. Andrea Rossetti

Elisabetta Benassi, Shadow work, 2017, mattoni refrattari inglesi, tappeti orientali, 103 x 550 x 435 cm, Courtesy Collezione Maramotti © Elisabetta Benassi – Ph. Andrea Rossetti

Elisabetta Benassi,  Appunti per una mostra 01, 2017 -Courtesy Elisabetta Benassi

Elisabetta Benassi, Appunti per una mostra 01, 2017 -Courtesy Elisabetta Benassi

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