Diego Marcon

Martedì 22 Settembre inaugura "FRANTI, FUORI!", personale di Diego Marcon a conclusione del progetto di residenza Performing Archives di Careof. Per ATP l'artista delinea il paesaggio concettuale da cui si è sviluppata la mostra.
19 Settembre 2015
Diego Marcon,   FRANTI,   FUORI! courtesy of the artist

Diego Marcon, FRANTI, FUORI! courtesy of the artist

Ho lasciato Parigi lo scorso gennaio, dopo quasi due anni; mi sono spostato a Milano su invito di Martina Angelotti a partecipare al progetto di residenza Performing Archive di Careof, di cui “FRANTI, FUORI”! è la mostra conclusiva. Le ultime settimane del mio soggiorno in Francia sono state quelle segnate dall’attentato alla redazione di Charlie Hebdo. Subito dopo il massacro, la grande maggioranza dei francesi si è mobilitata in manifestazioni di piazza, ha coniato slogan e ribadito i valori su cui poggia la Francia o, più in generale, l’Occidente libero e democratico.

L’11 gennaio, una domenica pomeriggio, sono uscito di casa e mi sono incamminato verso piazza della Bastiglia, dove stava iniziando a convergere parte del corteo organizzato in risposta all’attacco. Mi sono seduto su di una torretta elettrica a guardare la gente che confluiva tutt’attorno all’obelisco della grossa piazza. Quanto osservavo mi appariva logoro e stanco. Vuoto, simile a una bottiglia di plastica buttata a terra e che si prende a calci per qualche metro. Ho iniziato ad accusare un sentimento forse proprio di ogni domenica – una sorta di stanchezza e malinconia leggere e soffocanti. 

L’archivio video di Careof è composto da opere video di artisti principalmente italiani, prodotte dagli anni ’70 a oggi, da documentazioni di performance, happening ed eventi che ricostruiscono la storia dell’arte italiana e milanese, soprattutto degli anni ’80 e ’90. C’è poi una seconda parte dell’archivio – privata, meno nota – che è quella raccolta negli anni da Mario Gorni, fondatore di Careof e del suo archivio. Questa è composta soprattutto da registrazioni dalla TV o dal vivo, riprese di inaugurazioni, conferenze, incontri. Matrimoni fra artisti addirittura, alcune interviste. Martina Angelotti mi ha invitato qui per pensare a un progetto espositivo sul tema dell’archivio, partendo dall’analisi e dal confronto con quello di Careof. So fin dall’inizio che non toccherò una sola immagine di quei materiali. Che, tutti assieme, saranno per me uno sfondo da cui qualcosa potrà staccarsi, per disporsi e prendere forma su una superficie. 

Tanti continuano a ripetere che il cinema è morto, ma il cinema è una macchina che va avanti da sé, come altre – forse all’interno dell’unica grande macchina, il Capitalismo Spettacolare. Ma forse è proprio all’interno della macchina, come meri ingranaggi, che è ancora possibile sorprendere se stessi. In questo forse risiede l’importanza di un linguaggio, quando tutto è annacquato in una continua promiscuità di medium, stili, pratiche: nel sorprendere sé stessi nel semplice lavorio interno al mezzo – forse nemmeno interno al mezzo, ma nel girare del mezzo in sé. 

Il primo maggio, nel pomeriggio, rientro a Milano da Bucarest.  Davanti al computer, appena sono in studio, scopro le immagini degli scontri in centro. Parallelamente, su ogni social network, rimbalza lo sdegno per le devastazioni del Black Bloc. Ovunque si legge l’hashtag #milanononsitocca, e poi foto di cittadini che si danno da fare per ripulire i muri e le vetrine. Indignati, parlano di rovine, di macerie, di barbarie e violenze imperdonabili. Ma le nostre città sono già l’apice di una violenza imperdonabile. Sono già distese di polveri e ceneri, sono già deserti di rovine e di macerie. 

L’archivio video è piuttosto freddo: un catalogo di nomi e titoli, registrati con dati e brevi sinossi da cui vengono estratte alcune parole chiave: performance, found footage, arte digitale, danza, teatro, animazione, paesaggio …  È un sistema pragmatico, utile per la ricerca, come lo è, ad esempio, quello bibliotecario.  La spinta da cui hanno preso forma le produzioni contenute in questo archivio, una spinta sentimentale, si riduce di fatto ad una parete di scatole grigie, disposte l’una accanto all’altra a formare un blocco come di cemento, che ho di fronte mentre guardo i video. Non può essere altrimenti forse – alla composizione dell’archivio pubblico manca quanto resta tra gli oggetti ordinati dal privato, dall’amatore, dall’appassionato, dall’anale.

Uno dei temi musicali che ha avuto più riprese in forma di variazioni, è quello della “Follia”. È un tema molto antico di cui si trovano tracce nel XVI e XVII secolo ed è di origine portoghese.  Immaginati un tema, pulito, dritto, che viene preso dai musicisti e variato. E così dalla primitiva follia si passa alla tana follia, che arriva fino ad oggi. C’è una progressione accordale che va a reggere un tema melodico preciso, su cui gli esecutori si adoperavano a improvvisare. Si conoscono follie su ritmo di passacaglia, di sarabanda… Le variazioni presentano tempi e melodie tra le più diverse. Sembra un tarlo per i musicisti. Iniziano subito a lavorarci, già dal 1500.

Poi Frescobaldi inserisce autorevoli variazioni, poi Lully e poi Corelli, Marais, Vivaldi, Scarlatti, Bach, Salieri (ascolta che bello. È poco conosciuto), Haendel (poi usato da Kubrick)… Nell’800 va a entrare, ancor più trasformato, nella V sinfonia di Beethoven e nella Danza Macabra di Liszt. E poi ancora, nel ‘900, nelle bellissime variazioni di Rachmaninov e in Ponce, che ne fa una versione per chitarra, poi rivista e interpretata anche da Segovia.

Il 26 giugno Barack Obama dichiara il matrimonio per le coppie omosessuali un diritto costituzionale. Il giorno dopo, a Milano, è in programma il Pride. Gioia e orgoglio sono raddoppiati. Molta gente tra le mie conoscenze è in festa; le bacheche dei profili Facebook si colorano di arcobaleni. Raggiungo alcuni amici dopo la parata, la sera, in zona Porta Venezia. Qualcuno mi indica un balcone da cui una coppia di signore anziane, sorridenti, ha ballato all’arrivo della manifestazione. Una mia amica mi racconta l’impressione di sua madre che, al telefono, le dice di aver seguito la parata alla TV: “Sembrava divertente, molto colorato”.

L’archivio è un luogo fisico. È il luogo storico, ontologico, dove le cose cominciano.  È il luogo dove gli dei comandano. Dove comanda l’autorità, l’ordine sociale, l’ordine dato. È curioso – ma non interessante forse – come questo possa essere in relazione con l’arte e il potere, nel caso dell’archivio video di Careof: archîon – il domicilio, la residenza dei magistrati supremi, dei cittadini che detengono e significano il potere politico.

Il luogo in cui gli arconti assicurano la sicurezza fisica dei documenti e, allo stesso tempo, hanno il potere di interpretarli. La consegna (con-segno) dell’archivio è una forza che coordina in un solo “corpus” una serie di segni e di elementi che si articolano in una unità, una configurazione ideale (lo schema, il catalogo, l’elenco di parole-chiave). Il segreto non trova spazio nell’archivio. Il segreto, introdotto nell’archivio, separa, disgrega, apre degli spazi che sfuggono alla catalogazione e all’ordine. Il segreto minaccia la possibilità stessa della consegna dell’archivio. [Derrida]

E, di più, l’archivio contiene in sé sempre il suo meno, il suo negativo – tutto quanto nell’archivio non ha trovato luogo, tutto quanto è impossibile per l’archivio archiviare, tutto quanto resta di fuori, resta misterioso e segreto, invisibile e non catalogato. Forse non si tratta soltanto di tutto questo materiale, ma anche dell’interlinea tra le parole, tra le frazioni dei numeri progressivi, lo spazio tra le lettere delle keyword. Introdurre il mistero nell’archivio significa dare forma a quello spazio misterioso che è già nell’archivio in quanto tale, e che lascia trasparire come calco invisibile. Soffiarci della polvere addosso, così che l’invisibile possa mostrare le proprie curve, le tracce del proprio profilo.  Sfoglio ancora un po’ tra i video, tra migliaia di fotogrammi.

L’immagine mi sembra sempre più logora, stinta, esausta.

La gazza posata sul tetto della capanna del bambino Gesù nella Natività di Piero della Francesca.
La prima volta che vidi quella gazza fu nella riproduzione di un vecchio libro di inizio Novecento conservato nella biblioteca del mio liceo. Si diceva che il nostro supplente di filosofia uscisse da un passato burrascoso: alcuni anni prima aveva scagliato un vocabolario addosso a uno studente della seconda fila. Un giorno il mio compagno di banco mi avvertì che quest’uomo, il Professor D, alto e magro come un asparago, mi stava cercando con insistenza perché voleva che lo aiutassi in un progetto di ricerca su Anselmo d’Aosta. Raccolsi veloce qualche volume dalla biblioteca e mi nascosi tra gli animali in formaldeide del vecchio laboratorio di scienze: lì nessuno studente era mai stato stanato. Immaginavo il Professor D andare in lungo e in largo per il chiostro, perlustrare la palestra dei balilla, i cortili e tornare rassegnato in classe. Invece D aprì la porta del laboratorio: fu proprio in quel momento che trattenni il respiro e mi concentrai sulla pagina che avevo davanti, la riproduzione della gazza di Piero della Francesca. Al tempo non avevo ancora letto le parole scritte da Philip Guston sul pittore aretino: «[Piero] è così distante dagli altri maestri – privo della ‘completezza’ del loro spirito. Un diverso fervore, grave e delicato, si aggira nella luce diurna delle sue immagini. Spoglio delle passioni a noi famigliari, costui è un visitatore sulla Terra».

Salgo a Varese qualche giorno per assistere mia nonna che sta male. Resto con lei a casa e quando se la sente accendiamo la TV, ci sediamo al tavolo e giochiamo a carte. In sottofondo, Sky TG24 mostra le immagini dei profughi che dalla Serbia tentano di sfondare il confine ungherese. Il presidente annuncia l’intenzione di costruire un muro di filo spinato. Parallelamente, in molte provincie italiane, si verificano scontri tra le Forze dell’Ordine e cittadini che non vogliono vivere accanto ai centri di accoglienza. Negli stessi giorni viene pubblicata una fotografia che ritrae il corpo senza vita di un bambino di tre anni, sdraiato a pancia in giù sulla riva del mare. Nei pochi secondi in cui tengo lo sguardo sulla fotografia, mi appare come addormentato.

FRANTI, FUORI! è una mostra che si compone di un maiale, della presenza perturbante di una statua da esterno e da cinque cedimenti che oscillano tra la veglia e il sonno, tra il reale e l’onirico, tra il conscio e l’inconscio, in un movimento perpetuo e logorante. Nelle mie intenzioni, è una mostra trista e tosta, opaca e vischiosa, fatta di segni e di versi, ma tacita, senza parole. Si regge su una superficie increspata: “La notte è lo spazio della morte, il sonno un suo segno: la respirazione – dietro il suo rassicurante ritmo di onda – rivela lo sforzo precario che la sostiene, e l’inquietudine che presiede a ogni vita” [Risset]

Sono appena rientrata da Hong Kong. Avevi notato le persone dormire nei ristoranti? Ricordo questa coppia, era domenica. Il tempo di ordinare e lei si è addormentata con una tempia appoggiata al muro. Sono arrivate le zuppe e il compagno ha iniziato a mangiare, senza svegliarla.

Diego Marcon

FRANTI, FUORI!

a cura di Martina Angelotti

22 settembre 2015 – 6 novembre 2015

Opening 22.09.2015 – h 18.30 | careof, Milano

Nell’arco di sei mesi di residenza, Diego Marcon ha intrapreso un percorso erratico all’interno dell’archivio video di Careof, rispondendo così all’invito di Performing Archive. FRANTI, FUORI! è la mostra che conclude questa esperienza.

Seguono le installation view della mostra:

Diego Marcon,   FRANTI,   FUORI!,   veduta della mostra,   Untitled (Head falling 02 & 05),   Untitled (All pigs must die) & Untitled (Head falling 04),   2015,   Foto: Edoardo Pasero,   Courtesy l'artista

Diego Marcon, FRANTI, FUORI!, veduta della mostra, Untitled (Head falling 02 & 05), Untitled (All pigs must die) & Untitled (Head falling 04), 2015, Foto: Edoardo Pasero, Courtesy l’artista

Diego Marcon,   FRANTI,   FUORI!,   veduta della mostra,   Untitled (All pigs must die) & Untitled (Head falling 04),   2015,   Foto: Edoardo Pasero,   Courtesy l'artista

Diego Marcon, FRANTI, FUORI!, veduta della mostra, Untitled (All pigs must die) & Untitled (Head falling 04), 2015, Foto: Edoardo Pasero, Courtesy l’artista

Diego Marcon,   FRANTI,   FUORI!,   veduta della mostra,   Untitled (All pigs must die) & Untitled (Head falling 01),   2015,   Foto: Alessandro Nassiri,   Courtesy l'artista

Diego Marcon, FRANTI, FUORI!, veduta della mostra, Untitled (All pigs must die) & Untitled (Head falling 01), 2015, Foto: Alessandro Nassiri, Courtesy l’artista

Diego Marcon,   Untitled (Head falling 01),   2015,   Animazione diretta,   inchiostro per tessuti,   inchiostro permanente e graffi su pellicola 16mm,   colore,   senza sonoro,   10'' in loop,   Veduta dell'installazione,   Careof,   Milano,   IT,   Foto: Edoardo Pasero,   Courtesy l'artista

Diego Marcon, Untitled (Head falling 01), 2015, Animazione diretta, inchiostro per tessuti, inchiostro permanente e graffi su pellicola 16mm, colore, senza sonoro, 10” in loop, Veduta dell’installazione, Careof, Milano, IT, Foto: Edoardo Pasero, Courtesy l’artista

Diego Marcon,   Untitled (Head falling 02 & 05),   2015,   Animazione diretta,   inchiostro per tessuti,   inchiostro permanente e graffi su pellicola 16mm,   colore,   senza sonoro,   10'' in loop,   Veduta dell'installazione,   Careof,   Milano,   IT,   Foto: Alessandro Nassiri,   Courtesy l'artista

Diego Marcon, Untitled (Head falling 02 & 05), 2015, Animazione diretta, inchiostro per tessuti, inchiostro permanente e graffi su pellicola 16mm, colore, senza sonoro, 10” in loop, Veduta dell’installazione, Careof, Milano, IT, Foto: Alessandro Nassiri, Courtesy l’artista

Diego Marcon,   Untitled (Head falling 04),   2015,   Animazione diretta,   inchiostro per tessuti,   inchiostro permanente e graffi su pellicola 16mm,   colore,   senza sonoro,   10'' in loop,   Veduta dell'installazione,   Careof,   Milano,   IT,   Foto: Edoardo Pasero,   Courtesy l'artista

Diego Marcon, Untitled (Head falling 04), 2015, Animazione diretta, inchiostro per tessuti, inchiostro permanente e graffi su pellicola 16mm, colore, senza sonoro, 10” in loop, Veduta dell’installazione, Careof, Milano, IT, Foto: Edoardo Pasero, Courtesy l’artista

Diego Marcon,   Untitled (Head falling 04),   2015,   Animazione diretta,   inchiostro per tessuti,   inchiostro permanente e graffi su pellicola 16mm,   colore,   senza sonoro,   10'' in loop,   & Untitled (All pigs must die),   2015,   Film 16mm,   "Winnie-the-Pooh" found footage,   pellicola rossa,   acrilico su banda sonora ottica,   colore,   suono,   10'' in loop,   Veduta dell'installazione,   Careof,   Milano,   IT,   Foto: Edoardo Pasero,   Courtesy l'artista

Diego Marcon, Untitled (Head falling 04), 2015, Animazione diretta, inchiostro per tessuti, inchiostro permanente e graffi su pellicola 16mm, colore, senza sonoro, 10” in loop, & Untitled (All pigs must die), 2015, Film 16mm, “Winnie-the-Pooh” found footage, pellicola rossa, acrilico su banda sonora ottica, colore, suono, 10” in loop, Veduta dell’installazione, Careof, Milano, IT, Foto: Edoardo Pasero, Courtesy l’artista

Diego Marcon,   Untitled (The dwarf),   2015,   Statua da giardino,   legno,   150x150x60 cm,   Foto: Edoardo Pasero,   Courtesy l'artista

Diego Marcon, Untitled (The dwarf), 2015, Statua da giardino, legno, 150x150x60 cm, Foto: Edoardo Pasero, Courtesy l’artista

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