Adelita Husni-Bey. Laveronica, Modica

5 Febbraio 2015

E’ in mostra fino al 28 marzo, nella galleria di Modica  Laveronica arte contemporanea,   Agency – giochi di potere, la nuova personale di Adelita Husni-Bey. La mostra è composta da un’installazione video accompagnata dalle foto di una simulazione svoltasi nell’Aprile 2014 al MAXXI di Roma. Ispirata ad un esercizio di cittadinanza di classe originariamente sviluppato nel Regno Unito, la simulazione ha coinvolto trentacinque studenti volontari del Liceo Manara di Roma a cui è stato chiesto di riflettere sulle dinamiche di potere nell’Italia contemporanea.

ATPdiary ha chiesto all’artista di redigere un diario fotografico commentato per raccontare i vari passaggi che dall’idea hanno portato alla realizzazione del progetto.

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Mentre scrivo penso al potere come paradosso. Il potere è il sintomo di una limitazione, un codice deciso e redatto da una maggioranza che implica l’esistenza di una minoranza subordinata, ma il potere è anche la possibilità e la capacità di agire.

Il potere può essere distribuito, sciolto, incubato, tenuto stretto, allontanato, divorato e divorante. Il potere può essere utilizzato, dormiente, un potenziale, parziale, un’arma. Il potere è un oggetto alzato, una posizione.

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Il workshop di cui vi parlo (che è diventato anche un breve film) parte quindi da una riflessione su questo paradosso: la capacità di intendere il potere come potenziale per agire, e il potere come mezzo di sottomissione. Come convivono queste due definizioni nello stesso concetto?

Il titolo del film, risultante dal workshop, è infatti Agency (EN), che si traduce in ‘agentività’. Riflettendo sulla dinamica tra queste due definizioni coabitanti nel concetto di potere, ho pensato alle variabili presenti nelle varie capacità di agire. Prima di cominciare a fare ricerca non avevo mai sentito la parola ‘agentività’:

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A Novembre 2013 comincio a documentarmi sugli studi di cittadinanza. Mentre in Italia la controparte, l’educazione civica, viene introdotta in Italia da Aldo Moro nel 1958, in Inghliterra i ‘Citizenship Studies’ entrano a far parte del Curriculum Inglese solo nel 2002. Gli studi vengono introdotti sotto gli auspici del ‘Crick Report’, scritto nel 1998, che chiedeva alle scuole pubbliche di dare maggiore direzione al popolo Britannico in materia di cittadinanza. “Cosa vuol dire essere un cittadino Britannico?”, “quali sono i diritti e i doveri” che appaiono sotto forma di contratto tra il cittadino e lo Stato Inglese? Sebbene in parte ispirati alla crescita dello spirito civico gli studi di cittadinanza vengono visti con sospetto; perché quando lo Stato descrive un ‘cittadino’, delinea l’ombra di chi non lo è, e in questo modo sorveglia il perimetro che compone la nostra soggettività.

Uno dei giochi di simulazione presenti nel Curriculum di Cittadinanza Inglese prevede la divisione della classe in vari gruppi di interesse: ad esempio lobbysti, banchieri e attivisti, che entrano in relazione tramite degli scenari che dovrebbero riflettere la vita politica attuale. A fine simulazione gli studenti decidono quale gruppo ha prevalso e perché.

Riguardo la prima immagine che ha ispirato il lavoro (di un fotografo americano, trovata in un mercatino). Il lavoratore inadatto, la professionalizzazione: una giacca distinta, ma troppo larga. Su un piedistallo, da un sarto, lo spiazzamento futuro che si manifesta in uno specchio.

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Con questa immagine ritrovo anche il primo schema prodotto pensando al workshop, si vedono i tavoli e la zona dedicata al telegiornale:

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Nella versione che ho studiato per il workshop, basandomi sul curriculum originale, i gruppi sono 5, come si vede nel diagramma: lavoratori, banchieri, attivisti, politici, giornalisti. I giornalisti producono un tg ogni ora, e sono responsabili di far conoscere agli altri membri della ‘società’ cosa sta succedendo. Per gli altri gruppi non ci sono linee guida, anzi, nelle settimane che precedono il workshop i ragazzi del liceo Manara di Roma vengono messi in relazione con persone che possono aiutarli a complicare l’apparente banalità delle loro categorie: Fabio Isman (giornalista), Rita Bernardini (Partito Radicale) tra altri, gli fanno visita a scuola.

Le regole sono:

– lo scopo del gioco è far arrivare al potere la propria categoria.

– ogni gruppo può decidere al suo interno cosa fare della propria categoria (dividersi, formare diversi gruppi, rimanere uniti, rompere le regole, entrare in un altro gruppo)

– ogni ora, dopo il tg, ci sediamo a parlare di chi ha più successo nella scalata, e perché. Ogni categoria deve quindi conferire un ‘punto potere’ a un’altra categoria.

Maggio 2014: entriamo nella grande sala 5 del Maxxi, dove si svolgerà il workshop. Le finestre della sala danno sulla città e sono enormi, a loro volta potenti. Divulgo il primo scenario, frasi recuperate dal Corriere e Repubblica nelle settimane precedenti:

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I 3 giorni seguenti vedono partiti che si susseguono, lavoratori che protestano, giornalisti che scioperano, tassi e tasse che si alzano, semi-sommosse popolari, elezioni da rifare. Riporto parte di un testo di Elena Papotto, che fece parte del gruppo dei lavoratori e restituisce il suo punto di vista, a un anno di distanza:

“ […] Lo scopo di questi punti era che alla fine del progetto, chi ne aveva di più, vinceva. Se devo essere sincera non ricordo chi abbia vinto, non perché non mi interessasse, ma per il fatto che il ricordo di quelle giornate non si concentra su una vittoria o una gara a primeggiare, bensì su ogni azione, parola e sensazione provata sul momento. Non ricordo distintamente cosa è stato fatto ogni giorno, come io ero vestita o come lo erano gli altri, ma ricordo la sensazione di trovarsi in una stanza piena di gente, sentirsi se stessa, ma allo stesso tempo dover recitare, mettersi in gioco e lottare per una causa non propriamente mia, ma profondamente sentita. Perché in quella stanza, avevo davvero la percezione di essermi per un attimo allontanata dalla mia vita e interpretare quella di una qualsiasi altra persona.”

Qualche giorno fa ho chiesto a mio padre di rovistare in camera mia e fare delle foto/scansire alcuni documenti prodotti dai ragazzi durante il workshop (con lo scanner ci sa fare, con l’iPhone un po’ meno): le note riflettono i programmi politici dei partiti che si sono formati. Riguardo i punti, ciò che è stato cancellato, ciò che viene scritto per primo, la predominanza dell’economia, l’istruzione in coda.

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Rileggo gli slogan dei lavoratori, dopo il terremoto che ha colpito la loro città, e i poster preparati per le proteste, ed è come se i registri linguistici passino sempre da una retorica ben precisa, strutturata a monte.

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L’ ultimo giorno una delle lavoratrici viene da me e dice di voler andare a casa prima della fine del workshop. Mi spiega che nonostante le proteste, nonostante la formazione del sindacato, nonostante la creazione del ‘Movimento 5 Arance’ i lavoratori non sono riusciti ad influenzare gli scenari. Non si sente partecipe del ‘gioco’, sente che nessuna delle loro azioni ha portato ad un risultato concreto, misurabile.

Mi chiedo cosa ci ha portato in quella direzione specifica, al replicare gli elementi più brutali della realtà, o semplicemente farne specchio, come nella foto del fotografo Americano. Noi, in piedi allo specchio, continuiamo a infilarci vestiti distinti, nei quali scompariamo. A fare dello scontro un’immagine, a fare del partito un collage di volantini di storie più o meno defunte, della DC, del PD, FI, PDL, M5S, PC, MSI, SEL, FN, PpI, AN…

Parlandone con i ragazzi ci rendiamo conto che in parte il problema sono le categorie che li suddividono: il politico si comporta pensando a un politico che conosce, il lavoratore si sente escluso a priori, il banchiere fa gli interessi della banca. Ci voleva più tempo; le cose stavano per cambiare, dicono. Un giorno, scherzando, mi accusano di essere ‘Dio’; ho ideato il loro mondo anche se hanno avuto la libertà di farne ciò che volevano. Questo paragone mi imbarazza, questa gerarchia dettata puramente dalla mia posizione, scomoda, che rende tutto il resto necessariamente passivo. E se non ci fosse stato Dio? Cosa avreste fatto?

Poi pensiamo al potere, nella lotta tra la prima e la seconda definizione del potere ha prevalso la prima, la capacità di soggiogare. Se è vero che la realtà viene riprodotta cosa ci può portare a rompere con quello che già conosciamo, al cercare un altro tipo di immaginario strutturale? Anche quando i limiti sono risibili riusciamo veramente solo ad immaginare il presente?

A questa domanda non ho proprio una risposta soddisfacente, oggi l’ho chiesto a Tami Fiano che ha partecipato, riporto qui sotto parte della sua risposta:

“Se ci avessi chiesto di assegnare i punti in base ad un criterio differente, magari ponendo l’attenzione sul bene comune o sull’equità sociale probabilmente avremmo davvero riprodotto una società un po’ più utopica e distante da quella in cui viviamo ogni giorno.

Purtroppo invece ognuno di noi ha tratto le proprie conclusioni guardandosi attorno.”

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La rubrica Artist’s Diary è curata da Matteo Mottin

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