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7 spunti per cambiare

7 spunti per cambiare Riflessione di Giorgio Galotti Questo formulario è un’analisi non indispensabile per provare a chiarire alcuni ruoli e sopravvivere alla confusione del momento, all’innumerevole quantità di eventi, all’esagerato corpo di artisti e alle scelte del contemporaneo in...

Ugo Rondinone - Our magic hour - 2003
Ugo Rondinone – Our magic hour – 2003

7 spunti per cambiare

Riflessione di Giorgio Galotti

Questo formulario è un’analisi non indispensabile per provare a chiarire alcuni ruoli e sopravvivere alla confusione del momento, all’innumerevole quantità di eventi, all’esagerato corpo di artisti e alle scelte del contemporaneo in Italia.

L’arte in questo paese sopravvive sul passaparola, sulle fotogallery web, sull’accumulo di comunicati stampa, sulle formule “one day show” dove le inaugurazioni sono sovraffollate e i giorni a seguire destinati a passanti fortuiti.

L’arte di oggi sta formando figure indefinite senza un futuro certo, non esiste una formazione per artisti, curatori, galleristi, direttori di museo. La maggior parte di queste figure si forma sul campo, intasando il settore, creando confusione e generando una selezione anti-darwiniana dei progetti, dando possibilità di sviluppo a idee di terz’ordine, ponendo l’opera di qualità alla stregua dell’idea improvvisata.

Ecco dunque alcuni spunti, noti a molti, su cui riflettere per provare a migliorare le cose, dopotutto il nostro ruolo ci impone di essere onesti e fare autocritica, nella speranza di un miglioramento comune.

1- Gli artisti

Quanti artisti conosciamo? Quanti di questi valgono? Quanti passeranno alla storia? E quanti sono quelli che conoscono la storia se nelle accademie viene insegnata a tentoni? Gli artisti di oggi non sanno se quello che creeranno sarà una vera intuizione o solo un processo ereditato da altri. Non sanno neanche proporsi, pensando che attraverso l’invio di una email possano entrare in contatto con le realtà più o meno professionali del settore. Le gallerie ricevono spam quotidianamente che non viene neanche presa in considerazione. Forse non tutti sanno che un talento non si scopre nel portfolio allegato ad un’email ma dopo un accurato studio del suo lavoro, e non solo. Gli artisti sono il motore di questo settore, se l’artista crea confusione anche il settore impazzisce. Basterebbe essere più onesti con se stessi, capire se realmente quel ruolo, così delicato, appartiene a chi lo svolge, studiare, affidarsi a un attento curatore che possa seguire di continuo l’evoluzione del lavoro e che possa diventare un consigliere personale. L’artista dovrebbe smetterla di presenziare a mostre nelle gallerie o nei musei di arte contemporanea e tornare a popolare i luoghi dedicati all’arte antica e moderna, per ripartire da lì e capire come si affrontava questa disciplina nel passato.  Impostare il proprio lavoro più come un ricercatore che come un personaggio baudleriano in cerca di successo attraverso la partecipazione in disparati eventi, premi, fiere e progetti senza futuro. L’artista è un testimone del tempo che vive, è un ruolo troppo delicato per poterlo “provare a fare”.

2- I curatori

Una volta esistevano i critici. Poi è arrivato il curatore, un ruolo mutuato per sopperire ad alcune lacune macroscopiche del settore e per giustificarne altre. I curatori che sanno fare il proprio mestiere sono pochissimi. Di quelli che lo sanno fare non tutti si tengono aggiornati visitando le mostre di persona. Il danno più grande lo fanno agli artisti, incontrandoli in momenti di confusione come gli opening o le fiere, dove la ricerca di un giovane viene distrutta dalle leggi del recinto: sorridere, salutare, presenziare. Alcuni di loro hanno il potere di segnalare i nostri talenti per residenze estere, premi o mostre istituzionali. Altri fanno questo mestiere perchè agevolati da buoni contatti inizialmente, poi si perdono dietro alla riscossione di un compenso, troppo spesso unico motore di questa professione. Anche qui basterebbe fare un passo indietro, e tornare a visitare le mostre in galleria senza pregiudizi. Impostare il lavoro settimanalmente, fissare studio visit e incontrare gli artisti veramente. Portare gli statement degli artisti agli istituti di cultura, alle gallerie, alle sedi istituzionali per veicolare la realtà nazionale dentro e fuori l’Italia. Dopotutto è un lavoro, difficilmente verrà da voi da sè. E cosa principale, crearsi un gruppo di artisti da sostenere a vita, non per un paio di mostre pur di intascare una retribuzione. I curatori, quelli bravi, gli artisti li seguono dall’inizio, non li recuperano da piattaforme già assodate.

3- I galleristi

Non esiste una scuola per galleristi, non esiste un attestato, un patentino, un documento che riconosca questa professione. Non esistono corsi di aggiornamento validi a cui i galleristi dovrebbero sottoporsi prima di avviare l’attività. Il gallerista è solo, dall’inizio alla fine della sua carriera, e la solitudine fa fare anche errori, che in un’ottica imprenditoriale si pagano cari. La galleria non è un negozio ma soffre le leggi di un negozio. L’associazione nazionale delle gallerie (ANGAMC) prova a sopperire a questa mancanza inviando newsletter periodiche di aggiornamento sulle norme in merito all’iva, al diritto di seguito e quant’altro, e questo limita questa professione all’imprenditorialità, non preoccupandosi del suo intento culturale. Di conseguenza chi fa il gallerista lo fa a proprie spese, sul proprio corpo, con le proprie finanze, fino a quando regge. Il gallerista di oggi è un project manager, uno strategic planner, un registrar, un fund raiser, un curatore e un bieco venditore. Nella sua solitudine è attratto dal luccichio delle fiere, luoghi di mercato dove si svolge gran parte dell’attività commerciale. Una volta i galleristi pensavano a fare belle mostre, se restava del denaro si pensava alle fiere. Oggi la programmazione è fatta in funzione delle fiere, le stesse opere prodotte per una mostra sembrano essere concepite per essere facilmente posizionabili in uno stand. Sarebbe il caso di smetterla di seguire le proprie intuizioni ma soprattutto, sarebbe il caso di tornare a fare il lavoro in galleria, dove la gente non entra più, perchè dentro le gallerie si può fare ancora la differenza.

4- Le riviste

Il prolificare di riviste di settore riflette esattamente lo stato di crisi dell’arte. Molte riviste web, sentono la necessità di rendere l’arte uno strumento di gossip quotidiano, questo attiva dei meccanismi tali da sminuire il lavoro che c’è dietro a un progetto, attraverso una fotogallery. Quante volte alla domanda: “Hai visto la mostra…?”, ci siamo trovati di fronte alla risposta “No, ma ho visto le foto”. Internet ha fatto molto per la divulgazione dell’arte ma forse ora è il momento di fare un po’ meno. Quelle cartacee, invece, utlizzano la recensione come mezzo più immediato di complicità. Uno strumento spesso basato non sulla qualità delle mostre recensite, ma sulla base degli affiliati della testata. Ma qui il miseunderstanding va oltre. Il più delle volte, infatti, le recensioni sono affidate ad apprendisti che hanno l’onere e l’onore di racchiudere il lavoro di un artista e di una galleria in poche righe ridondanti, che nessuno legge, se non i diretti interessati. Il ruolo del recensionista è uno dei ruoli più delicati, eppure è spesso affidato ai meno esperti, a chi non richiede una retribuzione fissa perchè non ha ancora una preparazione idonea, ed è li per apprendere, sul lavoro di altri. Essere recensionista in Italia vuol dire fare esperienza con l’idea che un giorno si potrà accedere al settore. Questo crea uno dei gap della nostra generazione. Ma allora perchè non scrivere meno, riducendo gli scatti delle mostre a uno solo e incentivando i lettori ad andare a visitarle dal vivo. Perchè non restituire questo ruolo a studiosi? Anche loro sarebbero lieti di migliorare i contributi riportando le notizie di una mostra in modo più attendibile. Perchè non fare una selezione obiettiva ed evitare di parlare di qualunque cosa? Le gallerie e gli artisti sarebbero incentivati a lavorare meglio.

5- Musei

I musei hanno il ruolo di istituzionalizzare un artista, renderlo sacro e internazionale. Ma spesso i direttori di museo si impigriscono, smettono di visitare le mostre nelle gallerie private e nelle fondazioni, non entrano più negli studi degli artisti, tantomeno di quelli emergenti, e limitano il loro aggiornamento alle fiere, alle grosse manifestazioni dove diventa complesso valutare il lavoro di un operatore. Nel momento in cui entrano in carica si distaccano da tutto e da tutti per paura di proposte indecenti.  Le relazioni con i direttori di istituzioni estere si contano sulle dita di una mano, questo non consente di produrre ed esportare le mostre realizzate, anzi spesso le mostre che entrano in Italia sono acquistate da istituzioni estere (a noi italiani l’acquisto di un prodotto estero ci rasserena), e può capitare che arrivino addirittura parziali per ridurre le spese. Non sarebbe il caso di tornare ad aprire le porte degli studi d’artista come si faceva prima di ricoprire la carica? Di tornare a rispondere alle email quotidianamente? Di andare a visitare le mostre degli altri musei e girare per gallerie private, dove i talenti si annidano senza un vero confronto? E magari creare ponti con l’estero, utilizzare gli istituti di cultura, le piattaforme già esistenti, le ambasciate, come vetrine dei nostri artisti all’estero, creando partnership solide con programmazioni annuali. O magari se proprio non si ha tempo, destinare una sala del museo ad una project room da affidare ad artisti o galleristi a rotazione, che senza spese, nel tempo potrebbero somministrare nuova linfa “dentro casa”. E poi il personale, è mai possibile che le sale dei nostri musei siano controllate da persone che conoscono solo le vie di uscita e la posizione delle toilet? Un minimo di istruzione anche per loro sarebbe una crescita.

6- Le fiere (italiane)

Questo strumento è stato ereditato totalmente da altri settori dove il commercio è avido e rigoroso. La fiera nasce come luogo di scambio dove la cultura è rarefatta. Pensare di racchiudere in una fiera la visione di un artista o il lavoro di una galleria può essere limitante. Gli organizzatori non possono applicare le proprie scelte per ovvi motivi commerciali, le spese di organizzazione sono altissime e più spazi si vendono più si guadagna. In qualunque fiera gran parte di quel tempo servirà ad accumulare contatti, conoscenze e sorrisi, utilissimi al lavoro del gallerista e un po’ meno al lavoro di un artista, che in quella occasione diventa solo un nome, offuscandosi quasi totalmente il suo processo creativo.

Il concetto di fiera nel tempo è diventato un momento passivo, un momento che si subisce, generando illusioni continue, dove la scommessa del gallerista può tradursi in una semplice copertura delle spese. Perchè non limitare il numero di gallerie partecipanti e diminuire i prezzi a una fee simbolica per provare a creare un modello di fiera “italiana”, facendo pagare gli ingressi a tutti senza mezzi termini, in modo da rendere quei corridoi non intasati da conoscenti, familiari e curiosi che in quel momento sarebbe meglio non vedere. E se ribaltassimo il concetto lasciando ai visitatori, fruitori del prodotto finale, il pagamento delle spese dell’organizzazione, invece che lasciare tutto sulle spalle delle gallerie? Le gallerie già producono le mostre, sostengono gli artisti, portano collezionisti, finanziano riviste e se gli va bene vendono. Una fiera del genere consentirebbe alle gallerie di osare di più, ai collezionisti di vedere progetti completi, e quei visitatori occasionali, forse ridotti della metà, potrebbero valutare se pagare e vedere un lavoro completo, trasformando la fiera in un progetto speciale della galleria. Su questo principio l’organizzazione potrebbe finalmente svolgere il ruolo che tanto gli piace: selezionare e invitare le gallerie a produrre un progetto, invece di invitarle a pagare una quota pur di esserci.

7- I collezionisti

Il processo di creazione termina con la scelta del collezionista. Ma essere oggi un collezionista non significa solo acquistare opere d’arte. Creare una collezione non è solo un momento di svago o di investimento, quanto un processo di accumulazione organizzata. Le collezioni più complete non sono solo quelle popolate da nomi in modo compulsivo, magari acquistati in un’asta, ma anche quelle create con dovizia, passione, ricerca e un filo conduttore. Il collezionista è una pedina fondamentale dell’arte e a volte può essere vissuta secondo il principio della scelta di campo, orientandosi nella difesa di alcuni artisti e non di tutti. Se molti collezionisti hanno deciso di rendere pubblica la propria collezione attraverso lo strumento delle fondazioni ci sarà pure un motivo.  Il collezionista di contemporaneo visita quasi tutte le mostre, conosce gli artisti di persona e sceglie con calma per poter difendere la propria scelta nel tempo. Collezionare è anche scommettere, e per capire quali opere fare entrare in collezione può essere utile perseguire una strada. Appartenere a questa “specie” non vuol dire solamente comprare, ma vuol dire anche partecipare, condividere, dialogare, giocare e innamorarsi di continuo. Esaltarsi per i successi dell’artista e svilirsi per l’eventuale disfatta, senza seguire i trend del momento e acquistando solo quello che davvero smuove. Se i collezionisti non acquistano le gallerie chiudono, e con esse le fiere, le testate. A quel punto gli artisti, rimasti soli, migrano all’estero.

Forse è il momento di riflettere.